The Order, recensione: il baffo poliziesco di Jude Law guida un film solidissimo, anche nel fare le scelte sbagliate
Jude Law guida con mano ferma e baffo d’antan un poliziesco statunitense vecchio stampo dalla regia ragguardevole, che non capisce il tesoro che ha tra le mani.
Sul finale di The Order di Justin Kurzel ci viene finalmente detto qualcosa su un libro per bambini che, come un filo rosso, tiene insieme l’intero film. Con la classica didascalia che rivela sobriamente che “questa è una storia vera”, il film rivela la sua connessione alla stretta attualità e, come conseguenza, il suo fallimento narrativo. A differenza di quanto detto per la splendida serie “mussoliniana” di Sky M. Il figlio del secolo, The Order manca totalmente di dialogare con il presente e le inquietudini che vive il suo pubblico, dentro e fuori gli Stati Uniti. Ci propina un thriller poliziesco che più classico non si può, che segue un copione ideale da vecchio film con i poliziotti statunitense e gli agenti del FBi con baffone, stivale e cappello da cowboy e i cattivi così cattivi che sono suprematisti bianchi antisemiti che vivono in un comunità-setta in cui i bambini accolgono i visitatori col saluto nazista.
The Order è davvero un poliziesco statunitense vecchia maniera
The Order non è sottile né innovatore insomma, ma è solido, solidissimo. Sia per costruzione sia per intepretazioni. Lo sceneggiatore Zach Baylin (King Richard, Gran Turismo) è il principale colpevole, se dovessi additarne uno. La sua filmografia parla per lui: negli ultimi anni ha scritto alcuni dei film più insopportabilmente banali e retorici a cui ci è toccato assistere, che abbiamo tutti prontamente ignorato o dimenticato. The Order invece verrà visto e ricordato con piacere da un certo tipo di pubblico. Ammesso e non concesso che esista qualcosa di stereotipato e sessista come “un film da femminile”, The Order sarebbe il suo uguale e contrario. Un film da maschi eterosessuali in cui gli uomini entrano nel FBI per fare i conti con emozioni e rapporti familiari che reprimono nelle viscere insieme a tazzone di caffé nero, che si esprimono a monosillabi o grandi verità universali sbocconcellate tra una sigaretta e un bicchiere di whiskey che bagna il baffone. I danni di True Detective, dirà qualcuno, e non avrà torto, a giudicare da certe panoramiche sulle foreste del Idaho in cui l’unica traccia d’umanità è una sottile striscia d’asfalto su cui corre la macchina dell’agente del FBI Terry Husky.
L’unico vero rischio che si prende The Order è chiamare un’inglese raffinato e piacente come Jude Law a interpretare il suo americanissimo protagonista. Un agente del FBI da manuale del poliziesco anni ‘70 e ‘80: estraniato dalla famiglia, beve troppo, lavora troppo, dorme troppo poco. La sua interpretazione è solida e rassicurante, così come il suo accento e il suo baffo che fanno da corredo alle classiche pose da investigatore meditabondo. La cosa che gli riesce meglio è veicolare quell’aura da surrogato paterno che esercita un enorme fascino sia sul poliziotto locale che lo affianca nell’inchiesta (il Jamie di Tye Sheridan) sia su Bob, carismatico leader di una scheggia satellite di un gruppo antisemita e razzista che le autorità lasciano prosperare perché “innocuo” e perché in “Idaho non succede niente” (cito testuale). È opinione di chi scrive che Jude Law ne esca così bene proprio perché è una scelta inconsueta, che sorprende, spiazza in positivo. Tuttavia gli Stati Uniti sono stracolmi di interpreti con i tratti somatici e l’accento giusto per centrare questo ruolo, per cui forse non c’era comunque bisogno di questo import di lusso.
The Order ha per le mani uno spunto pazzesco, ma preferisce ripetere il canone del genere
In The Order seguiamo una lunga indagine che prende il via da una rapina a una banca consumatasi a Denver nel 1983, seguita da colpi simili, sempre più violenti e audaci. Dietro sembra esserci qualcuno di più ambizioso di un semplice rapinatore. Qualcuno con piano che, per essere attuato, ha tra le sue fasi la raccolta di grandi somme di denaro, da cui le rapine armate. Sia gli investigatori sia il film stesso mancano di comprendere la potenza de “I diari di Turner”, un libro per bambini che fa capolino sin dalle prime fasi del film. The Order però è troppo concentrato sull’anima nera di un’America anti-democratica (con tutto il codazzo di sette, croci bruciate, ebrei assassinati, svastiche, battute omofobe e culto per le armi) per insistere sull’unico elemento che meriterebbe attenzione, ovvero su ciò che ha davvero lasciato dietro di sé questa storia criminale ispirata a fatti realmente accaduti.
Invece il regista Justin Kurzel esercita il suo notevole talento per inanellare una serie record di scene retoriche, classiche del genere. C’è persino l’immancabile scena del protagonista che, nel folto della foresta, s’imbatte in un maestoso cervo, lo inquadra nel mirino del suo fucile ma poi ci ripensa all’ultimo e non spara. L’ultima scena in ordine cronologico di Sheridan (ormai abbonato a questi ruoli in divisa) è, se possibile, ancor più retorica. Non che si rimanga stupiti né dall’evoluzione del suo personaggio né dalla scena stessa, considerando che poco prima Jude Law l’aveva apostrofato come “kid”, ragazzo, come il vecchio padre poliziotto saggio che prende sotto la sua ala protettrice la giovane recluta.
Justin Kurzel firma una regia che The Order non si merita
The Order vive e muore di questi continui sguardi di comprensione tra uomini che hanno visto il lato oscuro dell’America, la malinconia della vita. Chi lo tiene in vita, oltre al trio Law-Hoult-Sheridan, è la splendida, splendida regia di Justin Kurzel. Che viene proprio da pensare che un film con così poco da dire non si meriti certe scene curatissime, cesellate nel cult poliziesco ma di grande impatto visivo. Una su tutte: c’è un omicidio su commissione in cui la cinepresa si muove come se fosse la portiera della macchina che viene aperta di getto, ruotando sul suo asse, mettendo poi a fuoco lo specchietto laterale in ci vediamo il killer puntare il fucile verso la vittima, ancora fuoricampo. Speriamo per Kurzel che si trovi presto un progetto meritevole del suo talento.