The Warrior - The Iron Claw, recensione: il “Piccole donne” dei veri uomini colpisce dritto al cuore
Sotto strati di muscolatura e allenamenti massacranti, The Iron Claw nasconde tanto di quel sentimento e di quell’umanità da lasciare travolti: quattro fratelli che, messi l’uno contro l’altro, finiscono per salvarsi. La recensione.
The Iron Claw racconta la storia dei rampolli del campione di wrestling Fritz Von Erich: Kevin, Kerry, David e Mike. Quattro ragazzoni texani, muscolosi e biondissimi, che passarono buona parte degli anni ‘80 a inseguire il sogno paterno di conquistare il titolo mondiale di campione del mondo di pesi massimi nel mondo del wrestling. È fatto abbastanza noto che lo sceneggiatore e regista Sean Durkin abbia tolto da racconto un quinto fratello e molti drammi aggiuntivi, perché ha ritenuto che la storia dei Von Erich fosse troppo, troppo tragica per risultare credibile su grande schermo, qualora raccontata nella sua interezza.
Già si fatica a sopravviverle a occhi asciutti alla sua versione ridotta: The Warrior - The Iron Claw è uno dei film emotivamente più toccanti, una delle storie sportive più drammatiche raccontate in anni recenti al cinema. Quella di un gruppo di fratelli che ha una sola arma per fronteggiare il loro traguardo sportivo, la crudeltà del mondo esterno e un ambiente familiare competitivo: il rapporto di fratellanza l’uno con l’altro. Una solidarietà, un amore che sopravvive anche quando vengono messi l’uno contro l’altro da una padre che, a cena o davanti alla TV, li mette in ordine di gradimento nella sua personale classifica, ammonendoli che la suddetta può variare in ogni momento.
Non stupisce dunque che in molti abbiano paragonato questa storia al celebre romanzo di Louisa May Alcott. Laddove le piccole donne di casa March fronteggiano le prime asperità della vita potendo contare sul loro legame di sorelle, i Von Erich fanno esattamente lo stesso. Solo che a guidarli non c’è una madre amorevole e che tenta di far di loro giovani giudiziosi e esseri umani con una morale retta C’è piuttosto un padre epitome di quella forza oscura che porta un genitore a vedere nella prole uno strumento di realizzazione personale, per ottenere via proxy, nella generazione successiva, traguardi o successi a lui negati.
Cosa succede se in un sogno sportivo tutto va storto?
Fritz Von Erich - interpretato da un granitico e glaciale Holt McCallany - è il contraltare perfetto al Will Smith di “King Richard”. Ricordate il film per cui l’attore afroamericano vinse l’Oscar, subito dopo quello schiaffo che lo ha fatto finire nell’occhio del ciclone? La pellicola, prodotta dalle sorelle Williams, raccontava come forza propositiva e incrollabile il padre che tracciò la loro vita da campionesse del tennis, ancor prima che nascessero. Il fattore destabilizzante di un film non propriamente riuscito era proprio come questa figura venisse spinta come positiva, amorevole, paterna, pur non potendone sempre negare i limiti e gli aspetti oscuri. Vedendo quel film si percepiva chiaramente l’amore filiare di chi lo ha prodotto per esaltare e ringraziare un padre nel cui culto (un’espressione forte ma non così azzardata) era cresciuto. Vedendolo da fuori però veniva da chiedersì: “Sì, ma se fosse andato tutto storto? Se una o nessuna delle sorelle Williams fosse riuscita a sfondare?”
The Iron Claw risponde a questa domanda con la sua storia vera e un film che riesce a non annegare nella stessa drammaticità che tenta di raccontare. Mentre Fritz inculca nelle teste dorate dei suoi ragazzi un'obbedienza cieca e un concetto di sportività e virilità scevro di debolezze, sentimenti e umanità, la sua prole trova tutto l’affetto e il supporto che il padre e la madre Doris (Maura Tierney) negano loro proprio nei fratelli. Quello dei Von Erich è un clan in cui l’affetto tra fratelli riesce a sopravvivere a lutti devastanti, a una malsana competizione che il padre alimenta continuamente, a infiniti fallimenti, a un dolore sconfinato.
Tutto per una cintura, un piano prestabilito da un padre padrone a cui non basta vincere. In un’intervista che diventa un delirio di follia ci fa capire che sarà forse vendicato solo quando tutti i suoi figli - anche quello dall’animo artistico lontano anni luce dall’avere il fisico e la mente adatti alla lotta sul ring - avranno ottenuto ciò che secondo lui è stato negato a lui dieci anni prima. Passato da una roulotte a un grande ranch, benedetto da quattro figli che lo amano senza remore, il padre di The Iron Claw non ha mai un momento di cedimento, come tutti grandi coach sportivi, fino però a diventare un malvagio degno di una tragedia di Shakespeare.
King Lear, King Richard e The Iron Claw
Difficile non pensare a Shakespeare o alla tragedia greca di fronte a figli la cui purezza e così mal direzionata dal padre da renderli incapaci di sopravvivergli, di ribellarsi, di salvarsi. Il protagonista Kevin, interpretato da un Zac Efron in stato di assoluta grazia, è una tragedia di puro sacrificio e dedizione direzionati verso un traguardo di cui non conosce il senso, ma che persegue credendo nelle parole del padre. La voce fuori campo a inizio film ci svela che lui gli ha promesso immunità dal dolore, dalla morte, dal fallimento se solo sarà il più veloce, il più duro, il più forte. Sul lungo periodo Kevin dimostrerà di avere raggiunto questo traguardo, ma in un modo che renderà insanabile il distacco dal padre e devastante l'impatto sulla sua vita.
Efron, ormai affrancatosi dallo scetticismo ispirato dai suoi ruoli giovanili (che, va detto, permane solo in chi non lo ha seguito nelle sue prove recenti) è circondato da colleghi parimenti capaci e ispirati. Jeremy Allen White riesce per esempio a tenere insieme nel bello e maledetto Kerry l’amore per i fratelli e il desiderio insormontabile di essere il migliore agli occhi del padre. Ancor più sorprendente è Harris Dickinson che si dimostra sempre più versatile, ficcante nel ruolo di David, il fratello che maschera meglio lo stacco tra ciò che è e ciò che padre vorrebbe che fosse.
In The Iron Claw, ambientato in un’America così pura e così violenta insieme, in cui l’amore filiale convive con una genitorialità su cui si allunga l’ombra dello sfruttamento, illuminato dalla luce dorata del sole texano fotografata da Mátyás Erdély, c’è lo stesso enorme tradimento di Foxcatcher. È un complimento non da poco, dato che il film di Bennett Miller è forse il capolavoro di questa nicchia sportiva e cinematografica. Con una differenza: lì l’utilizzo dello sport come leva per gli istinti più abietti e lo sfruttamento più bieco è palese, chirurgico, glaciale, qui invece è istintuale, implicito, forse subconscio da parte di tutti.
È una prigione ancor più meschina da cui tentare di uscire, un incubo da cui l’ultimo, fatale colpo di pistola può risvegliarti. L’ultimo regalo dell’ultimo fratello per rendere libero il suo amato fratello, e ricongiungersi a quanti non ci sono più. Un abbraccio finale che altrove sarebbe sembrato stucchevole, ma in cui è impossibile non credere in The Iron Claw.