Velvet Buzzsaw
Una gallerista senza scrupoli si impossessa dei quadri di un anziano defunto, mettendoli in vendita a caro prezzo. Quello che non sa è che l’uomo aveva usato la pittura come metodo di psicanalisi e che quei dipinti sono decisamente maledetti...
A un anno da Bright, primo vero blockbuster per lo streaming online, Netflix sta ancora cercando la sua strada nel percorso di realizzazione di opere originali. Parliamo di pellicole ad alto budget, con star di primo ordine ma troppo spesso prive di un lavoro accurato di sceneggiatura. Velvet Buzzsaw non fa eccezione e, sullo sfondo del patinato mondo dell’arte contemporanea californiana, mette in scena il più classico degli horror da ‘cursed object’.
La maledizione, in questo caso, riguarda una serie di quadri dipinti da un anziano signor nessuno e ritrovati casualmente da una ambiziosa mercante d’arte (Rene Russo). Le opere, ovviamente ipnotiche e aspre in stile Egon Schiele, attirano la curiosità (e i soldi) di molte persone, ma qualcosa di sinistro – legato all’infanzia dell’artista – è destinato a scatenarsi nel momento in cui esse vengono messe in vendita. Invano un critico d’arte (Jake Gyllenhaal) cercherà di fermare la maledizione, mentre i cadaveri iniziano a spuntare fuori...
Velvet Buzzsaw sarebbe un film facilissimo da fare a pezzi: la storia senza originalità, la tentata satira che finisce per diventare involontaria autoparodia, le interpretazioni a dir poco sopra le righe (Jake Gyllenhaal ricorda a tratti il peggior Nicolas Cage) sono tutti fattori che, a rigor di logica, condannerebbero il film a una bocciatura senza appello. E in effetti l’opera di Dan Gilroy – già regista e sceneggiatore dell’interessante Nightcrawler – Lo Sciacallo – riesce a malapena nell’impresa di sollevarsi dal piattume da B-movie soltanto per un certo gusto nel mettere in scena l’estetica del trash.
Come spettatori, volendo essere buoni, non siamo così diversi dai frequentatori delle gallerie d’arte mostrate sullo schermo: da un lato vorremmo trovare il senso supremo nell’opera che guardiamo, dall’altro ci accontentiamo dell’appagamento superficiale che il film ci procura. E un paio di sani brividi, molte risate (involontarie - ma a questo punto ci viene davvero il dubbio che non si tratti di un thriller, bensì di uno spoof) e qualche minuscolo tocco di classe buttato lì (l’androide con le stampelle o il personaggio di John Malkovich, più sensato di quanto non ci appaia a una prima visione) ci fanno comunque arrivare alla fine della visione.