Donne forti, occhi lucidi e cancro: We Live in a Time, come si racconta l’amore al cinema nel 2025

Ogni San Valentino prevede un’uscita romantica e potenzialmente lacrimosa in sala: cosa ci racconta We Live in a Time di come si racconta l’amore al cinema nel 2025.

di Elisa Giudici

Se c’è un genere cinematografico su cui gli inglesi sono davvero, davvero forti è il melodrammone romantico. Non necessariamente, anzi quasi mai quello in cui ci si dispera battendosi il petto e piangendo fortissimo, dato il carattere nazionale compassato, al limite della repressione emotiva. Prendiamo ad esempio l’ultimo esponente del genere: We Live in a Time, pellicola che si basa quasi completamente sui reaction shot di Andrew Garfield disperato con i lucciconi, costretto a fare i conti con alcune verità scomode.

La prima è che dopo un divorzio doloroso il suo Tobias ha trovato l’amore della vita, ma il tempo che avrà a disposizione con la sua Almut (Florence Pugh) è contingentato per via di un cancro che torna dopo un primo ciclo di chemio, più cattivo e metastatizzato.

La seconda è che Almut non è particolarmente propensa a spendere questo tempo a pensare a un matrimonio d’addio, ma anzi vuole impegnarsi in una competizione culinaria di altissimo livello che ben si adatta al suo carattere competitivo, performante, perfezionista.

La terza è che tutti i limiti di scrittura di un film con degli spunti intensi e degli interpreti ancor più bravi dovrà ovviarli lui con questi continui primi piani in cui è sull’orlo del pianto, devastato emotivamente nella sua sensibilità di uomo nuovo e moderno, ma queste lacrime proprio non scendono, perché comunque siamo inglesi.

Le donne forti nella commedia romantica: una rivoluzione a metà

Andrew Garfield poi è campione olimpico di struggimenti strazianti, in quanto ottimo attore, in quanto interprete inglese, in quanto vittima preferita di una gran pletora di registi più o meno bravi quando c’è da far soffrire terribilmente un uomo sensibile. Persino Martin Scorsese, in Silence, gli aveva affidato con grande profitto il ruolo del martire, letteralmente.

Tobias però martire lo è perché We Live in a Time è l’ennesimo film che evidenzia un’evoluzione a metà della narrativa cinematografica. Il punto del film sembra essere la forza di Almut, una donna pragmatica, concentrata, decisa; il complemento perfetto a un uomo sensibile e che non ha paura di mostrarlo. In un avanti indietro temporale che complica inutilmente la narrazione senza fornire giustapposizioni o contrasti rilevanti, seguiamo contemporaneamente la formazione della coppia, le prime difficoltà, il primo cancro, la gravidanza di lei e il secondo ciclo di chemioterapia.

Che Almut sia una tipa tosta lo certifica la sua entrata in scena, quando investe Tobias mentre attraversa la strada. I due finiscono prima al pronto soccorso, poi a letto insieme. Quando le cose cominciano a farsi potenzialmente romantiche, l’over 30 Tobias mette le mani avanti e dice: io di figli ne vorrei, tu no, giusto? Da qui parte la prima litigata che è anche la prima crisi di un film che, come tanti altri, fatica a gestire un personaggio femminile forte.

Almut è una compagna, una madre e una professionista di alto livello, per giunta con un cancro da combattere: giocoforza qualcosa salta. Eppure nel manuale informale di come si scrive una donna forte in questo strano tempo di misoginie striscianti e volenterosi tentativi di cambiare la narrazione vigente, non c’è modo di evidenziare questa difficoltà senza subito giustificare la protagonista nei suoi errori.

La scena in cui Tobias e Almut si confrontano sullo snodo figli, ancor prima di essere una coppia vera e propria, è insieme una delle migliori e delle peggiori del film. We Live in a Time ha il merito di mettere in una cornice romantica tematiche e tensioni come questa, comuni, quotidiane e quindi in teoria antitetiche all’immaginario cinematografico, fatto di prime volte e straordinarietà. Non sarebbe male vedere più film che parlino del dopo aver formato la coppia. Dell’amore dopo l’innamoramento.

Il problema è come questo e altri snodi cruciali simili vengono risolti dalla sceneggiatura. Tobias mette sempre sul piatto il problema, Almut lo guarda e gli dà una risposta forte, talvolta tagliente, poco incline alla tradizione e al compromesso. È solo perché Garfield è davvero strepitoso che il film funziona, perché lui riesce a venderci questo uomo sensibile che in pochi secondi è ferito, turbato, arrabbiato e poi subito butta il cuore oltre l’ostacolo facendo un’inversione a 360° e finendo sempre per darsi la colpa.

Perché le donne forti non possono essere egoiste? 

Quello che manca a We Live in a Time è la capacità di ritrarre una donna forte, per cui fare il tifo, senza cancellarne sistematicamente le colpe e e le piccole mancanze. C’entra sicuramente un clima neopuritano in cui un personaggio è buono e positivo finché compie scelte corrette. Persino i cattivi, da tempo, sono diventati antieroi incompresi. Manca la capacità di raccontare al pubblico come anche le persone buone prendano decisioni sbagliate o commettano errori.

Proprio per l’eccezionalità del momento che Almut sta passando è più che comprensibile che non tutte le sue decisioni siano le migliori possibili. Tuttavia derubricare il tutto come piccole sviste o peggio, errori del compagno (che la supporta e le sta accanto con sconfinata devozione) dà come sempre l’impressione della difficoltà con cui si accettano le donne forti, che devono essere sempre più che esemplari. In tanti film prima di questo vi ho raccontato come si crei addirittura una dicotomia tra realizzazione professionale e sentimentale, arrivando a postulare che per ottenere la prima di debba, necessariamente, sacrificare la seconda.

We Live in a Time fa lo sforzo di tenerle insieme, ma quando Almut mette sé stessa al primo posto, tentando di plasmare cosa lascerà dietro di sé in caso il cancro la sconfigga, il film fallisce nell’inquadrare la decisione come personale ed egoista. Non c’è bisogno di un giudizio morale: se c’è un momento in cui le persone hanno diritto di essere egoiste, è quando le circostanze le costringono a pianificare il loro tempo finale sulla Terra. Almut però ha dei legami affettivi da gestire e non li gestisce al meglio, anche se il film cerca di dirci il contrario.

È qui che We Live in a Time mette il piede in fallo, tanto da fare quasi supporre che la malattia sia lì per rendere più difficilmente attaccabile la posizione della sua protagonista. La verità è che il film non solo starebbe in piedi, ma risulterebbe enormemente più interessante sottraendo il cancro all’equazione. Almut dovrebbe comunque decidere se mettere in pausa la realizzazione professionale per un traguardo proposto dal compagno e a cui ha inizialmente acconsentito, dovrebbe accettare di essere il partner meno presente nella vita della figlia, per sua precisa volontà.

Sono scelte che migliaia di donne prendono tutti i giorni e poi ci fanno i conti quando litigano col partner, quando ne parlano con lo psicologo perché si sentono in colpa. We Live in a Time sbaglia perché si finge emozionale e ricercato con i suoi salti temporali e il suo dramma umano, ma di fatto mette ancora una volta davanti a queste donne un esempio eccezionale (Almut è una professionista di altissimo livello in due ambiti, quello sportivo e lavorativo) in cui è difficile specchiarsi.

Quando al film in sé invece, il regista John Crowley fa un lavoro discreto, ma si sente una distanza siderale rispetto al suo precedente Brooklyn, che invece gestiva alla perfezione queste problematiche. Vedendo i titoli che lo sceneggiatore Nick Payne ha sotto la cintura prima di questo, si capisce cosa manchi esattamente a questo film: la scrittura di alto livello. Per sua fortuna, viene in parte salvato dalla grande capacità dei suoi protagonisti e dalla bella intesa che sanno creare tra di loro.