Whitney, recensione: oltre la Voce c’è solo un’operazione karaoke
Giunti a questo punto il dubbio è lecito porselo: perché film come Whitney: Una Voce Diventata Leggenda vengono prodotti? Dopo il successo commerciale di Bohemian Rhapsody, il biopic con protagonista di Rami Malek nei panni di Freddy Mercury, la prima risposta che viene da dare è: per tentare di replicare lo stesso incasso al botteghino e magari strappare qualche nomination agli Oscar, impressionando il pubblico con un’altra mimesi perfetta. I protagonisti di questi biopic spesso si muovono su un confine nebuloso tra recitazione e concorrente di Tale e Quale con Carlo Conti su Rai1.
A voler essere maliziosi - esercizio a cui di tanto in tanto è lecito prestarsi - c’è dell’altro. In un’epoca in cui i media sono dominati dalla nostalgia per le decadi passate, portare su schermo a una a una tutte le voci e i volti leggendari della musica pop anni ‘80 e ‘90 è un’operazione a basso rischio o quasi. Specie se c’è dietro una famiglia o degli eredi che possono apporre il sigillo di autenticità su quanto vediamo su schermo, anche se poi non ci vuole molto a scoprire che quella che abbiamo visto è la versione edulcorata delle lacrime, del sudore, della violenza e della droga vissuti da quell’artista (ovviamente ormai morto) nel suo dietro le quinte drammatico.
Questo non è vero per tutti i film biografici musicali, ovviamente: Rocket Man aveva alle spalle Elton John ma è un’operazione di grande schiettezza, Elvis di Baz Luhrmann sottopone il re del rock ‘n roll a una profonda manipolazione, ma con il preciso scopo di dire cose molto forti sullo star system statunitense.
Da Freddy Mercury a Whitney Houston: cosa c’è dietro i biopic di Anthony McCarten
Quando però dietro a un’operazione del genere ci sono gli artefici di Bohemian Rhapsody (film passato dall’essere amato a essere famigerato, in pochi mesi) la musica cambia, eccome. Se l’icona pop del caso vanta un’identità queer conclamata o poco nota ma drammatica da spendere, allora è solo questione di tempo prima di vedere questo gruppo di creativi preparare un film a tema. Insomma, dopo Freddy Mercury è arriva Whitney Houston, non ci sarà probabilmente molto d’attendere prima di vedere un film su George Michael.
I Wanna Dance With Somebody si propone di raccontarci la voce (anzi Voce) di una generazione in due ore e venti minuti. Per dare un senso alla straordinarietà dell’ugola e dei drammi umani di Houston forse sono anche pochi, ma di certo il tempo non manca per farci scoprire qualcosa di più su di lei, come persona e artista. Naomi Ackie interpreta una giovane donna bella come una modella e dalla voce naturalmente straordinaria, che fa la corista per la mamma cantante. Al momento giusto, la madre Cissy (Tamara Tunie), una vita spesa a diventare più di una professionista senza riuscirci, si fa da parte per far brillare la sua principessa, Whitney. La sera fatale è quella in cui il produttore di innumerevoli star Clive Davis (Stanley Tucci nel suo ruolo tipo) è venuto ad ascoltare cantare la giovane promessa.
Poche sorprese, zero spessore
Non c’è pathos, non c’è crescendo: Whitney è da subito riconosciuta come la perfezione musicale, status che non verrà mai messo in forse, nemmeno quando precipiterà dalle stelle al rehab. Nel mezzo c’è tutto quello che conosciamo e ci aspettiamo da Whitney: le hit pop anni ‘80 e ‘90, avvicinamento alla musica RnB, il film The Bodyguard con Kevin Kostner, l’esibizione leggendaria al XXV SuperBowl (unanimemente considerata la miglior versione dell’inno statunitense mai cantata in una finale), il concerto per Nelson Mandela. Sul fronte pubblico, il film non manca nemmeno uno di quei momenti epocali, quasi banali, della carriera di Whitney, riservando poco spazio alla sua caduta, alla perdita della voce, all’ubriachezza e alle dipendenze.
Sul privato l’unica vera sorpresa è il ritratto queer che il film dà di Whitney: la parola “lesbica” aleggia nell’aria, l’amicizia con la manager Robyn Crawford (la brava Nafessa Williams) è chiaramente inquadrata come romantica, contrapposta al notorio matrimonio col cantante Bobby Brown. Quando si svolta sul privato però il film si mostra nel suo essere vuoto, incapace non dico di raccontare la vera Whitney o una sua versione accattivante, quanto di dire qualcosa di memorabile. Entrando in sala è legittimo chiedersi come verranno mostrate le botte, le violenze, gli abusi per cui il matrimonio con Brown è passato alla storia: esercizio futile, perché sul volto di Ackie non apparirà mai un livido. Il film finisce quasi per assolvere Bobby, mostrandocelo prima abusante a livello prettamente psicologico, poi quasi pentito.
Questo è il rischio di fare un film con il fiato sul collo degli eredi e della famiglia: di doversi piegare alla loro narrazione, anche quando non ha senso. Sin dall’inizio il film ci mostra Whitney come una giovane avvezza alle droghe, in una casa in cui girano liberamente erba e stupefacenti. Potrebbe sembrare una decisione forte, se poi non venisse usata più che altro per discolpare Brown. Una madre lontana, che si accorge dopo anni dello stato in cui versa la figlia, diventa persino una tardiva figura femminile di rinforzo.
Chi era Whitney? Il suo biopic non sembra saperlo
Se moralmente queste scelte sono più che discutibili, il cinema nella sua narrazione ha tutto il diritto di tradire, cambiare, smussare la storia per renderla immagine e storia. Limitandosi a giudicare l’operazione entro i confini dell’intrattenimento, si rimane comunque interdetti, perché questo film è davvero mal scritto. Alla fine della pellicola, dopo due ore e mezza di trionfi e sconfitte, abbiamo visto fare a Whitney tante cose, senza però mai capire che tipo di persona fosse.
Marionetta nelle mani della sua famiglia o donna queer costretta all’impotenza dal suo essere nera e lesbica? Lo era poi davvero? Così come in Bohemian Rhapsody, lo sceneggiatore Anthony McCarten prende una figura forte, iconica e controversa e ne smussa gli angoli fino a farla passare attraverso le sbarre della moralità e del buon gusto attuali,rendendola così sottilissima, trasparente.
Un’icona pop, una diva poi è tale perché non si conforma e per questo desta ammirazione e scandalo. Tentare di piegare chi era già divisivo negli anni ‘90 alla sensibilità di trent’anni dopo significa fare poco più di un karaoke, spuntare una lista di momenti iconici senza mai guardare oltre a quello che chi c’era ha già visto all’epoca.
Il forte sospetto è che, sotto sotto, film come questo siano le versioni aggiornate dei musicarelli italiani di un tempo. Pellicole promozionali che ti fanno giusto venir voglia i risentire quelle canzoni, o scoprirle se all’epoca non eri ancora nato. Canzoni i cui diritti sono saldamente nelle mani degli eredi che approvano queste operazioni. A pensar male si fa peccato, diceva Andreotti, ma spesso ci si azzecca.