Wild
di
Cheryl Strayed ha avuto una vita tanta randagia quanto il suo cognome suggerisce. Oggi é una stimata giornalista e scrittrice, é sposata, ha due figli e vive a Portland con il marito. WILD (pubblicato in Italia da PIEMME) é il libro che l'ha resa celebre, una sorta di memoriale autobiografico che ci racconta come da ventiseinne smarrita attraversò la costa occidentale degli Stati Uniti a piedi, dal Messico al Canada, seguendo un sentiero per escursionisti che si snoda tra deserti e foreste.
Cheryl non era un'amante del trekking né un'avventuriera, bensì una giovane donna colpita da grandi dolori e completamente disorientata, avviluppata in una spirale autodistruttiva.
Il film che porta su schermo questa confessione autobiografica é un gran bel lungometraggio; si nutre dei paesaggi suggestivi degli Stati Uniti più selvaggi alla Into the Wild, dei contatti positivi e negativi con gli abitanti dei luoghi e con gli altri escursionisti, decine di ritratti sfuggevoli dell'essere americano e dell'essere umano, un po' come avviene per l'Australia in Tracks, ma ha decisamente una dimensione sua, che gli dà un'identità ben definitiva rispetto a queste due pellicole con cui ha molti punti di contatto.
Jean Marc Vallee non si impigrisce lasciando che sia la straordinaria storia di perdita e rinascita di Cheryl (adattata per il grande schermo dal celebre scrittore di "Alta Fedeltà" Nick Horby) a emozionare lo spettatore e a fare tutto il lavoro, anzi, utilizza la dimensione visiva e lo strumento cinematografico come andrebbe sempre fatto, lasciando che le immagini e i movimenti raccontino tanti dettagli quanto i dialoghi e il voice over.
Tanti piccoli dettagli che raccontano la protagonista e chi le sta intorno con una voce che solo il cinema sa donare alle immagini e che spesso la pigrizia dei registi delega a spiegoni e voci fuori campo.
Già dalle prime sequenze del film siamo testimoni di un sfarfallio di episodi sconnessi che passo dopo passo, flashback dopo flashback, ci restituiranno il ritratto complesso della donna sperduta che era partita con noi a inizio film e che ha ritrovato sé stessa mentre tentavamo di capire cosa si fosse rotto dentro di lei.
Il tutto non funzionerebbe se la protagonista non fosse all'altezza della sfida, ma fortunatamente Reese Witherspoon tira fuori un'altra prova da incorniciare, una delle migliori della sua carriera, al fianco di una sempre radiosa e complessa Laura Dern (che ci saremmo anche un po' stufati di vedere sempre e solo nel ruolo di madre). L'unico elemento stonato che interrompe ogni tanto il filo della narrazione é la pretesa del film di mollare Reese Whiterspoon con due trecce e una frangetta e farci credere che sia una studentessa delle superiori. D'accordo essere di larghe vedute, ma no, grazie.
Cheryl non era un'amante del trekking né un'avventuriera, bensì una giovane donna colpita da grandi dolori e completamente disorientata, avviluppata in una spirale autodistruttiva.
Il film che porta su schermo questa confessione autobiografica é un gran bel lungometraggio; si nutre dei paesaggi suggestivi degli Stati Uniti più selvaggi alla Into the Wild, dei contatti positivi e negativi con gli abitanti dei luoghi e con gli altri escursionisti, decine di ritratti sfuggevoli dell'essere americano e dell'essere umano, un po' come avviene per l'Australia in Tracks, ma ha decisamente una dimensione sua, che gli dà un'identità ben definitiva rispetto a queste due pellicole con cui ha molti punti di contatto.
Jean Marc Vallee non si impigrisce lasciando che sia la straordinaria storia di perdita e rinascita di Cheryl (adattata per il grande schermo dal celebre scrittore di "Alta Fedeltà" Nick Horby) a emozionare lo spettatore e a fare tutto il lavoro, anzi, utilizza la dimensione visiva e lo strumento cinematografico come andrebbe sempre fatto, lasciando che le immagini e i movimenti raccontino tanti dettagli quanto i dialoghi e il voice over.
Tanti piccoli dettagli che raccontano la protagonista e chi le sta intorno con una voce che solo il cinema sa donare alle immagini e che spesso la pigrizia dei registi delega a spiegoni e voci fuori campo.
Già dalle prime sequenze del film siamo testimoni di un sfarfallio di episodi sconnessi che passo dopo passo, flashback dopo flashback, ci restituiranno il ritratto complesso della donna sperduta che era partita con noi a inizio film e che ha ritrovato sé stessa mentre tentavamo di capire cosa si fosse rotto dentro di lei.
Il tutto non funzionerebbe se la protagonista non fosse all'altezza della sfida, ma fortunatamente Reese Witherspoon tira fuori un'altra prova da incorniciare, una delle migliori della sua carriera, al fianco di una sempre radiosa e complessa Laura Dern (che ci saremmo anche un po' stufati di vedere sempre e solo nel ruolo di madre). L'unico elemento stonato che interrompe ogni tanto il filo della narrazione é la pretesa del film di mollare Reese Whiterspoon con due trecce e una frangetta e farci credere che sia una studentessa delle superiori. D'accordo essere di larghe vedute, ma no, grazie.