Wolf Man, recensione: il lupo perde il pelo in un horror di sostanza

Il mostro della Universal torna rivisto da Blumhouse: seppur non graffiante come L’uomo invisibile, Wolf Man è più del solito horror.

Wolf Man recensione il lupo perde il pelo in un horror di sostanza

Il nuovo Uomo Lupo è assai poco lupo: poco irsuto, niente occhi dorati che ti scrutano nell’oscurità, niente orecchiette a punta, appena un po’ di artigli e zanne ridotte all’osso. Nel film coscritto e diretto da Leigh Whannell infatti ciò che conta è la sua origine umana e come sia il centro del suo essere. Un’umanità sofferta in silenzio, non sempre positiva, in una storia di padri così timorosi del futuro dei propri figli da finire per fare proprio ciò che li terrorizza: segnarli a vita.

Wolf Man non è un film entusiasmante, almeno non quanto lo è stato il precedente L’uomo invisibile (2020), sempre diretto da Leigh Whannell. Considerando però la tortuosissima produzione che l’ha generato, è un lungometraggio con qualcosa da dire, che si scosta decisamente da un quel filone di horror che si appoggia a personaggi e storie già noti - horror e non - per creare remake da consumare voracemente, basati più sul jump scare e l’eccesso che altro. Film prodotti dalla stessa Blumhouse, che dietro ogni pellicola nasconde un gatto di Erwin Schrödinger: horror da catena di montaggio o horror che tenta di fare qualcosa di diverso sfruttando i limiti stessi di produzioni a budget medio basso?

Wolf Man, recensione: il lupo perde il pelo in un horror di sostanza

Wolf Man: il lupo venuto da lontano

Wolf Man appartiene fortunatamente a questa seconda categoria. La sua storia risale al 2014, quando Universal pensò di rispolverare i mostri della sua epoca d’oro, fino a creare un Dark Universe cinematografico. Era l’epoca d’oro degli Avangers e ogni studios sognava una batteria di film collegati l’uno all’altro, fino alla grande reunion, con cui riempire la propria programmazione. Il film fondativo The Mummy (2017) però fu un fiasco clamoroso, che quasi mise in crisi la carriera di Tom Cruise, portando uno studio molto prudente a più miti consigli. I film divennero progetti singoli e a Wolf Man s’interessò Ryan Gosling, che però poi finì altrove, facendo entrare l’intero progetto in stasi.

Nel frattempo Leigh Whannell conquistò anche la critica con quello che è ad oggi uno dei prodotti migliori della prolifica casa di produzione Blumhouse: L’uomo invisibile, che a partire dall’idea del più mite e innocuo mostro Universal tirava fuori una storia tesissima con al centro un vero mostro, ancor prima di smaterializzarsi. L’uomo che non si può vedere, ma che alimenta la paranoia di una compagna maltrattata e minacciata, che si sente sempre osservata, era un twist geniale.

I mostri Universal diventano un affare di famiglia

Wolf Man prosegue sulla stessa linea, trasformando i mostri fantastici Universal in un sintomo di complicate relazioni familiari. In questa versione della storia il lupo mannaro è il risultato di un misterioso morbo noto come “febbre delle colline”, che colpisce negli anni ‘90 un ignaro escursionista nelle foreste dell’Oregon. È una storia di padri legati visceralmente ai figli, a cui impartiscono un’educazione rigida, descrivendogli il mondo come pericoloso, inospitale e ostile.

Wolf Man, recensione: il lupo perde il pelo in un horror di sostanza

Il protagonista di Wolf Man è Blake (Christopher Abbott), cresciuto da un padre survivalista in una casa isolata in mezzo alla foresta. Da adulto vive in città ed è tutto il contrario della sua figura paterna: è un padre premuroso e dolce che ha messo in pausa la sua carriera per occuparsi della figlia Ginger (Matilda Firth). Il rapporto con la moglie Charlotte (Julia Garner) è però in crisi. Niente di violento o drammatico, solo un sottile logoramento di fondo, un consumarsi dell’affetto e un distanziarsi con al centro proprio la piccola: lei troppo presa dal lavoro, lui troppo passivo nel lasciare andare le sue ambizioni.

Si profila la possibilità di un viaggio in Oregon che Blake propone a Charlotte per tentare di ritrovare l’intesa perduta. Le cose vanno malissimo da subito, in una versione spopolata, ruvida e sinistra di quell’America rurale da cui non è difficile capire perché Blake sia fuggito. Non ci sono grandi sorprese perché Wolf Man non punta sui ribaltoni, ma sul conflitto dentro il protagonista che si manifesta ben prima della sua trasformazione in mostro.

Il rapporto col padre - che non è mai inquadrato come cattivo in sé e per sé - ha trasformato Blake in un uomo e un padre che tiene a bada una natura meno addomesticata di quella che dimostra. Wolf Man racconta le ferite che un’infanzia complicata (ma non drammatizzata all’estremo, nel territorio della violenza) lascia a chi le vive.

Aggrediti da un lupo mannaro, Blake e la sua famiglia si chiudono dentro la casa paterna di lui, dove però appare chiaro che lui stesso è stato infettato. Il conflitto di un uomo che teneva a bada i tratti caratteriali ereditati dai difficili rapporti con il padre viene incarnato nella sua trasformazione, che finisce però per raccontare tutto quello che Blake è oltre alle sue cicatrici: un padre e marito amorevole, nonostante quel dolore inestinguibile.

Wolf Man, recensione: il lupo perde il pelo in un horror di sostanza

Wolf Man è un horror quieto, teso, quasi malinconico

A rende Wolf Man apprezzabile c’è l’ambientazione nelle foreste dell’Oregon, territorio quasi privo di presenza umana, raccontato sin dall’introduzione come tanto duro quanto eterno nella sua bellezza. Il film sa essere scarno, anzi, forse ricerca toni quieti, persino nell’aspetto del suo protagonista, che richiama solo vagamente quello dei canidi. Visivamente ha una bella intuizione in come rende il cambio di visione di Blake mentre perde sempre più la sua umanità.

Pochi, intelligenti passaggi di sceneggiatura permettono al film di andare incontro con relativa naturalezza alle sue rivelazioni, con un minutaggio contenuto (103 minuti) che riduce al minimo i passaggi dispersivi e poco a fuoco. Manca però quel qualcosa di davvero graffiante, memorabile. Non c’è il colpo di mano che lascia ammirati che rende L’uomo invisibile una pellicola memorabile, ma anche qui si punta su un cast di interpreti non così noti, ma di comprovata professionalità. Dopo quel fiasco di Kraven - Il cacciatore, Christopher Abbott dimostra di poter far più della macchietta, affiancato da una Julia Garner che tiene sempre la sua “ragazza di città” al di qua dello stereotipo della madre manchevole e stressata.

Wolf Man

Durata: 103'

Nazione: Stati Uniti

6.5

Voto

Redazione

TISCALItestatapng

Wolf Man

Wolf Man è quello che Blumhouse dovrebbe essere sempre: un’onesta casa di produzione di film di genere a cui vengono affidati progetti a budget medio basso che si contraddistingue per come riesca a renderli interessanti, puntando su idee stuzzicanti e ben realizzate. Pellicole come Wolf Man sono pensate per l’intrattenimento di consumo, ma un consumo stimolante, che tiene svegli con le idee più che con spaventi ad effetto. Non replica il graffiante L’uomo invisibile per qualità, ma se tutti gli horror puntassero a questo approccio - pragmatico, concentrato, con qualcosa da dire - si rischierebbero meno cocenti delusioni in sala.

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