Women Talking, recensione: un “film da donne” più duro e brutale dei thriller horror
Women Talking è un caso da manuale di come alcuni film, spesso a tematica femminile, risultino invisibili anche quando raggiungono la candidatura all’Oscar più prestigioso: la recensione.
Women Talking è sicuramente il film meno noto tra i dieci che si contenderanno domenica la statuetta come miglior film agli Oscar. Il recente allargamento in questa categoria da 5 a 10 candidati possibili è stato pensato che consentire anche ai blockbuster a titoli più pop di raggiungere questo importante traguardo. Questo cambiamento consente ogni anno ai votanti dell’Academy di tentare di portare in nomination film belli ma poco visibili.
Women Talking è la piccola perla di quest’anno, che si aggiudica il poco invidiabile record di essere il solo film diretto da una donna candidato nelle categorie principali degli Academy Awards. È vero che rispetto all’anno passato i film a conduzione femminile sono meno inattaccabili, privi della forza necessaria per farsi largo in categorie agguerritissime come miglior regia. È altresì vero che una certa fetta di spettatori tende ad approcciare con snobbismo qualsiasi prodotto attorno a cui aleggi un’aura di “femminilità”.
E dire che Women Walking arriva nelle sale con il suggello di Brad Pitt come angelo produttore. Pensate quel che volete di lui come attore, ma è dai tempi in cui puntò su 12 anni schiavo che si è rivelato un produttore con un grande fiuto per la qualità e la rilevanza delle storie che finanzia, puntando quasi sempre sui nomi giusti, schierandosi dalla parte più debole e meno rappresentata ma con più cose da dire del mondo cinematografico.
Se lo si riassume come “un film in cui un gruppo di donne discutono tutto il tempo chiuse in un fienile” viene da chiedersi cosa ci faccia qui su GameSurf. Non va sottovalutato: Women Talking davvero non manca di crudezza e brutalità, tanto che è consigliabile informarsi adeguatamente prima di andare a vederlo. Il film stesso risponde alla domanda su cosa ci sia di sbagliato a bollare ogni argomento che riguardi le donne come poco interessante o delicato a priori.
La storia vera e durissima a cui s’ispira poi fornisce a tutti gli amanti del discorso sette religiose e abusi psicologici(grande filone del true crime) un ottimo titolo da visionare.
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La trama di Women Talking
Sarah Polley, regista e sceneggiatrice di Women Talking, ha portato al cinema l’adattamento del romanzo Donne che parlano di Miriam Toews. Il libro (che potete trovare qui su Amazon) è liberamente ispirato a fatti realmente accaduti in Bolivia, riguardanti una comunità religiosa mennonita. L’autrice stessa ha fatto parte per lungo tempo di una realtà simile.
I fatti rilevanti si sono svolti tutti prima dell’inizio del film. Per anni le donne di questa comunità hanno subito indicibili violenze, percosse, stupri. Non ne avevano però memoria, perché costantemente narcotizzate con un tranquillantedestinato all’allevamento di bovini.
Quando le più giovani scoprono un maschio della comunità nel pieno dell’abuso, scoppia il finimondo. Le donne capiscono che quelli che per anni sono stati bollati come sogni o azioni perpetuate da Satana sono state in realtà opera di alcuni uomini che hanno abusato di loro e degli anziani della comunità che hanno mentito alle loro donne.
Tutto questo è avvenuto prima dell’inizio del film, che indaga gli strascichi e le conseguenze di questa nuova consapevolezza. Women Talking è una pellicola corale, che vede per protagoniste le donne di tre famiglie. Saranno loro, in rappresentanza di tutte le donne, a decidere come procedere.
Chiuse in un fienile con Augustus, un insegnante maschio della comunità (Ben Whishaw) incaricato di redigere il verbale della loro assemblea, le donne devono trovare una soluzione a una situazione difficilissima. Mentre tutti gli uomini sono alla polizia per consegnare alle autorità ai presunti colpevoli dei crimini, le donne hanno un giorno di tempo per stabilire cosa fare.
Gli anziani della comunità hanno deciso che hanno due possibilità: possono perdonare i trasgressori e continuare la vita nella comunità, oppure non farlo. In questo caso saranno costrette ad andarsene dall’unico luogo che conoscono al mondo, loro che non hanno mai visto una mappa e sanno a malapena leggere e scrivere. Non solo: gli anziani sostengono che se non perdoneranno gli uomini, non avranno accesso a Regno dei Cieli.
Il film segue la dolorosa discussione tra tre generazioni di donne divise in tre famiglie con punti di vista differenti su cosa fare, prima di convergere su quella che sembra essere l’unica decisione possibile per garantire un futuro ai più piccoli della comunità. Ogni donna ha subito violenza; dalle più piccole alle più anziane. Ognuna di loro però ha un’idea differente su come interpretare quanto accaduto e cosa fare in merito.
Cosa funziona e cosa no in Women Talking
La forza di Women Talking risiede innanzitutto nel suo cast corale, che riesce a trovare un interprete con un carattere e un mood similare alle protagoniste che si scontrano tra di loro.
Rooney Mara per esempio è perfetta per incarnare Oona, una donna rimasta incinta dal suo ultimo stupro che sogna una comunità diversa, più giusta ed equa. A lei si contrappongono Claire Foy e Jessie Buckley, con performance altrettanto intense. La prima cova un rancore tale che istintivamente vorrebbe addirittura ricorre alla violenza, uccidere gli uomini con le sue mani. La seconda è cinica, aspra, disillusa, prigioniera di un matrimonio violentissimo a cui non riesce a ribellarsi. Ci sono poi le più anziane, come l’inflessibile personaggio incarnato da Francis McDonald, che nemmeno prende in considerazione l’idea di non perdonare gli uomini. Su tutti, ironicamente, brilla l’unico interprete di sesso maschile: un Ben Wishaw che stringe il cuore nei panni di un membro della comunità pentito e reietto, che conosce il mondo esterno ed è tornato solo per un amore impossibile, a cui non riesce a rinunciare.
Sarah Polley nelle vesti di regista fa alcune scelte forti, che pagano. La prima è quella di mostrare il risveglio delle donne abusate, lasciando la violenza fuori dallo schermo, lasciando che filtri dalle reazioni sgomente di chi vede apparirsi dal nulla addossi i lividi, senza ricordare nulla. È un approccio prudente, che non mina però la durezza di un film che ha passaggi davvero terribili nel suo racconto orale. Con la sua regia intima e fatta di studiati movimenti lenti, Polley però riesce a lasciare sempre una nota di autodeterminazione, di speranza, di umanità. Talvolta persino strappa una risata.
Meno riuscita a parere di chi scrive è invece la decisione di virare la fotografia del film verso una parziale desaturazione dei colori, che appaiono smorzati, lavati via. L’idea è quella di immergerci in un mondo così isolato e codificato nelle sue violenze e discriminazioni da apparire quasi privo di vitalità, di colore, di possibilità. Una prigione ovattata, crudele. Il problema è che il look finale del film appare molto artefatto, l’allegoria visiva non è poi così potente e anzi, risulta forzata. Una natura dai colori vibranti e rigogliosi avrebbe forze cozzato ancora di più con i discorsi delle donne chiuse nel fienile.
Quello che davvero si fatica a perdonare a Women Talking, il suo principale limite, è il linguaggio con cui fa parlare le sue protagoniste. Oona e le altre lo dicono nel film: sono poco istruite, non parlano mai del proprio corpo nella quotidianità. Non hanno le parole per esprimere quello che è loro capitato. O almeno, in teoria non le avrebbero. In pratica articolano pensieri complessi con un lessico iper contemporaneo, erede dell’attivismo del femminismo intersezionale. La pretesa, un po’ forzata, d’inserire anche a tutti i costi la tematica trans (per giunta in larga parte accettata da una rigida comunità religiosa senza batter ciglio) richiede di estendere la propria sospensione dell’incredulità a dismisura.
Polley di fondo esprime un difetto comunque a questa generazione di cineaste che stiamo conoscendo e apprezzando in questi anni: punta un po’ troppo verso l’essenzialismo, mettendo in scena un ideale che poco ha a che fare con la realtà.