Thunderbolts – Senza Quartiere: recensione del Marvel Must Have dedicato al team di Thaddeus Ross

Nel multiverso Marvel la salvezza non passa sempre da un mantello immacolato: a volte serve una mano sporca e piena di cicatrici. È il caso di Thunderbolts: Senza Quartiere, volume Marvel Must Have che ripropone i primi sei capitoli della run 2012 firmata da Daniel Way e Steve Dillon. A dirigere l’orchestra di antieroi troviamo Thaddeus “Thunderbolt” Ross, ora Hulk Rosso, deciso a “sanificare” il pianeta schierando figure borderline come Punisher, Venom, Deadpool, Elektra e persino Il Capo (Samuel Sterns), tenuto in coma come banca dati vivente di segreti gamma.
Il risultato è un assaggio radioattivo: colpi di stato lampo, dilemmi morali e un cliff-hanger bruciante che tronca la vicenda proprio mentre la nuova “arma” di Ross — la letale Mercy — entra in scena. Chi cerca un arco narrativo compiuto resterà a metà del guado, ma proprio questo sospeso rende il volume un punto d’osservazione privilegiato sulle derive più oscure del brand.

La ristampa arriva in scia all’uscita di Captain America: Brave New World, dove Ross e il Capo hanno finalmente calcato il grande schermo con risultati visivi non proprio unanimemente apprezzati, e a ridosso del film Thunderbolts* (in sala a inizio maggio 2025) che porterà in campo Yelena Belova, Bucky Barnes, Red Guardian, U.S. Agent, Taskmaster, Ghost e l’enigmatico Sentry. Confrontare questa formazione “gamma” di Way con le versioni del 1997 di Busiek & Bagley, della cellula black-ops di Ellis & Deodato e con la squadra cinematografica imminente sarà il filo rosso di questa recensione, utile a capire quanto ancora possa mutare il volto — non sempre raccomandabile — dei Thunderbolts.
Narrazione e Concept – Una Guerra Lampo che Brucia di Verde e Rosso
Fin dalle prime pagine salta agli occhi quanto questa formazione dei Thunderbolts sia lontana dall’idea classica di “super-squadra”. Dove gli Avengers impersonano l’eroismo a stelle e strisce e gli X-Men difendono un sogno di convivenza, il gruppo guidato da Thaddeus “Thunderbolt” Ross ricorda piuttosto la X-Force delle operazioni sotto copertura: un manipolo di combattenti scelti proprio perché non hanno paura di sporcarsi le mani. Infatti nello stesso "spogliatoio" troviamo personaggi dal background discutibile: un ex vigilante di guerra come Punisher, la forza instabile di Venom, la lama silenziosa di Elektra e l’humour delirante di Deadpool significa accettare in partenza che non esista alcun manuale di galateo supereroistico. Ross lo sa e ne fa un vanto, convinto che la vittoria passi prima di tutto dalla capacità di colpire più duro di chiunque altro.
Il piano appare lineare. Bisogna rovesciare il generale Awa e liberare l’isola di Kata Jaya, teatro dell’ennesima crisi alimentata da tecnologie gamma. Siamo dentro a un classico marchingegno narrativo Marvel: l’eroe — o, in questo caso, l’anti-eroe — viene attirato in un contesto tutto sommato familiare per scoprire poi che sotto la superficie si nasconde un colpo di scena. Qui il twist porta il nome di Philip “Madman” Sterns, fratello del celebre Capo, che sta tirando le fila di un esperimento gamma di cui si intravede solo l’orrore, abbastanza per far rabbrividire anche i soldati più temprati.

Quando l’operazione rischia di deragliare, Ross sfodera la mossa che rivela la sua natura di stratega glaciale. Recupera il Capo, ridotto a un mero guscio vuoto di sé stesso, e gli inietta il proprio sangue irradiato convinto che, prima o poi, quell’intelletto tornerà a brillare e gli fornirà la chiave per vincere (per tenerlo sotto scacco, Ross lo manteneva in coma cercando solo di far sviluppare il suo intelletto). Non importa se nel frattempo Samuel Sterns, risvegliatosi dal coma, vaga confuso, privo dei picchi di genio che un tempo facevano tremare Hulk e l’intero pianeta. Ross ragiona da militare: si vince sfruttando ogni risorsa, anche quando la risorsa in questione è una mente criminale che potrebbe ribellarsi in qualsiasi momento.
Il gesto stringe il nodo delle tensioni interne. Punisher reagisce con l’unico linguaggio che conosce e cerca di eliminare il Capo con un colpo netto. L’attentato fallisce, ma la frattura si allarga a dismisura, tanto più quando compare Mercy, creatura che fiuta la disperazione come uno squalo sente il sangue. La sua presenza suggella l’idea che la missione, nata per “ripulire” il male, ha in realtà liberato qualcosa di peggiore.
È proprio su questa soglia che il volume si interrompe. Il lettore rimane sospeso tra la promessa di un Capo in risalita, la brutalità calcolatrice di Ross e una squadra a un passo dall’implosione. Thunderbolts: Senza Quartiere si rivela così un antipasto intenso, troppo breve per saziare, ma abbastanza incendiario da far desiderare il resto del banchetto.
Regia e Disegni – Il Realismo di Dillon e la Penna di Way
La prima cosa che colpisce aprendo il volume è il segno di Steve Dillon: linee pulite, volti riconoscibili, inquadrature quasi da palcoscenico. Chi ha amato Preacher o la lunga stagione di Punisher MAX ritroverà lo stesso equilibrio tra nitidezza e brutalità. Io, però, confesso di non essere mai entrato in sintonia con questo stile. Nei momenti in cui Venom sprigiona la furia del simbionte o Deadpool saltella tra le esplosioni, quella compostezza mi fa desiderare un tratto più dinamico, simile a quello che Dillon usò solo a tratti quando spalancava l’inferno per Jesse Custer. Qui, invece, tutto resta a mio avviso volutamente contenuto.
Il colore di Guru eFX aggiunge energia, tingendo le vignette di verdi radioattivi e rossi incandescenti. Questo contrasto cromatico, accostato alle anatomie controllate di Dillon, dà all’insieme un sapore quasi straniante, come se il racconto oscillasse fra due anime: la sobrietà del disegnatore e la ferocia dei personaggi. Ricordandoci appunto a quanto fosse viscerale la carica emotiva di Preacher, qui invece sembra trasparire una distanza maggiore fra la storia e le immagini: la sceneggiatura spinge verso l’eccesso, ma il tratto resta ligio alla chiarezza.

Per quanto riguarda la sceneggiatura, qui porta la firma di Daniel Way, autore che negli anni ha costruito il proprio marchio su azione scattante e humour nero: basta ricordare le sue run di Deadpool o Wolverine Origins. In Senza Quartiere si diverte a intrecciare cinismo militare, riferimenti pulp e un crescendo di colpi di scena. Way dosa le battute di Wade Wilson per alleggerire la tensione, ma non si fa problemi a chiudere un capitolo con una testa che esplode o un tradimento improvviso. È un ritmo che funziona soprattutto nelle sequenze di dialogo: la freddezza di Punisher, il sarcasmo di Deadpool, la prudenza di Elektra si incastrano con naturalezza e generano quelle scintille che tengono viva la lettura anche quando la regia grafica preferisce restare più posata.
Il risultato, in definitiva, è una strana fusione: la penna di Way corre a velocità altissima mentre il disegno di Dillon procede con passo regolare. A qualcuno ricorderà il fascino crudo delle prime storie di Punisher scritte da Ennis, ad altri — me compreso — farà rimpiangere un tocco di follia visiva in più. Resta comunque un matrimonio coerente con il tono generale della serie: un racconto senza eroi, in cui perfino la gabbia delle tavole sembra voler rimarcare che la violenza, quando è vera, non ha bisogno di effetti speciali per far male.