Recensione Werewolf The Apocalypse Earthblood: Licantropi senza denti e unghie spuntate

di Simone Rampazzi

Vampiri e Licantropi hanno sempre fatto parte dell’immaginario collettivo, occupando il loro posto tra bestie mitologiche, protagonisti famosi di molti romanzi e personaggi selezionabili tra giochi di ruolo e da tavolo. Se ne sente parlare praticamente dovunque, entrambi pronti a occupare un posto di rilievo nella mente di ognuno di noi a seconda dei gusti o delle necessità del momento.

Da sempre queste due tipologie di creature si litigano la fama soprattutto nel mondo dei giochi di ruolo e forse solo i vampiri, complice il successo di vari franchise unici nel loro genere, sono riusciti a fare meglio il proverbiale passaggio da opera letteraria a opera videoludica, occupando gli scaffali con titoli che sicuramente almeno una volta abbiamo giocato nella nostra carriera di videogiocatori.

Si sentiva un po’ la mancanza di un titolo interamente dedicato ai licantropi, o avente almeno loro come protagonisti indiscussi, motivo che forse aveva un po’ appannato i nostri campanelli di allarme quando vedemmo tra i titoli in uscita un certo Werewolf the Apocalypse: Earthblood, gioco che stando ai trailer mostrati puzzava sia di capolavoro che di carogna.

Peccato che affinando l’olfatto, testando al contempo il codice recensione in nostro possesso, ci siamo accorti che le aspettative erano forse un pelino troppo alte.

LICANTROPI DI LEGNO

Il setting del videogioco sviluppato da Cyanide, in collaborazione con Nacon, prende ispirazione dal gioco da tavolo omonimo, una costola del più grande World of Darkness di cui fa parte anche Vampire The Masquerade. Un gruppo di licantropi deve proteggere il proprio insediamento dal continuo avanzare della Endron, una società che dietro a scopi benevoli nasconde invece una natura malvagia operosa, intenta a distruggere la natura pur di ricavarne profitto.

Nel mondo più complesso visto dai licantropi, anche detti Garou, il grosso gioco del mondo si regge sull’equilibrio di forze primordiali, ognuna nutrita da diversi elementi del mondo: il Weaver viene nutrito dall’umanità, con il suo avanzamento tecnologico, la scienza e l’urbanizzazione, il Wyld prende invece potere dalla natura, sebbene ora indebolita dall’opera dell’uomo, mentre il Wyrm, pericoloso e malvagio, tra potere dal male senza distinzione di sorta.

All’interno di questo canovaccio complesso seguiamo l’ascesa e la caduta di Cahal, membro di una tribù di licantropi che, durante una spedizione nelle fabbriche della Endron, cede alla follia uccidendo accidentalmente un altro membro della sua razza.

Da qui in poi ha inizio la nostra avventura in Werewolf the Apocalypse, avventura intervallata da una serie di missioni in successione che cerca di seguire una trama più o meno convincente, caratterizzata da dialoghi poco ispirati e da situazioni piuttosto al limite della sopportazione, se non altro proprio perché narrate in un modo eccessivamente legnoso e pedante.

La stessa legnosità la si avverte nella struttura ludica che compone l’opera, un action in terza persona dove il protagonista può sfruttare diverse abilità razziali, senza però eccellere in nessuna. Cahal può cambiare forma diventando un lupo, elemento che gli garantisce un movimento più rapido, insieme alla possibilità di passare all’interno di alcune condutture, nell’eventualità che il giocatore voglia operare nella missione mantenendo un minimo di approccio stealth.

Tale approccio, purtroppo, viene praticamente interrotto sul nascere dal posizionamento dei nemici piuttosto invasivo, accompagnato dall’aggravante che una volta scoperti verremo subito etichettati come minaccia, scatenando direttamente la nostra trasformazione in licantropo vero e proprio. Questo è un fattore che non può essere scelto dal giocatore, avviene punto e basta, senza alcun diritto di replica.

Una volta licantropi si può accedere a quello che dovrebbe essere il core del gameplay scelto per l’occasione, una danza mortale piuttosto legnosa dove il nostro alter ego, sottoforma di lupo mannaro, può colpire gli avversari sferrando potenti artigliate. È possibile selezionare due forme di combattimento, una basata sulla rapidità, l’altra sulla forza, insieme a delle piccole abilità che dovrebbero diversificare un minimo il gameplay, se non per spegnersi subito dopo lasciando spazio a un button smashing frenetico, dove basta premere il tasto Maiuscolo al momento giusto per scattare contro l’avversario e finirlo con qualche colpo ben assestato.

I nemici possiedono una IA piuttosto basica, seguono essenzialmente una routine di movimenti collegati alle armi in loro possesso, fattore che non gli fa scegliere alcun tipo di protezione per restare in disparte, facendoli anzi optare per l’avvicinamento così da raggiungere il punto preciso del range dei loro fucili. Alcuni di loro sono modificati geneticamente, fattore che gli conferisce un minimo di resistenza in più, eliminata sul nascere da abilità selettive come l’urlo o il balzo.

Ottenendo esperienza si possono acquistare delle abilità da uno skill-tree piuttosto povero di contenuti, giacché predilige maggiormente i bonus passivi, lasciando completamente da parte il possibile inserimento di abilità attive, magari da sfruttare nelle altre forme. Prima di essere costretti a mutare in licantropo, Cahal può fare uso di una balestra con dardi limitati, utilizzabile giusto in quelle aree dove con qualche escamotage si può passare dall’altra parte senza allertare nessuno.

La scelta di preferire l’inazione al combattimento nasce proprio dal ritmo di gioco imposto dagli sviluppatori, un ritmo ripetuto e perpetuo che finisce per risultare stucchevole dopo le prime missioni, complici tutti gli elementi che vi abbiamo elencato finora.

È persino possibile intrattenere dei dialoghi durante e tra le missioni presenti nel gioco, momento in cui purtroppo fanno capolino una serie di difetti tecnici piuttosto evidenti, come il ragdoll dei personaggi piuttosto abbozzato, penalizzato persino da movenze facciali piuttosto limitate. Il riciclo di asset può essere anche dovuto al fatto che i nemici fanno parte della stessa società, ma c’è sempre un limite fin dove spingersi, perché in questo caso sembra di combattere contro l’agente Smith in Matrix Revolutions.

Durante il gioco è inoltre possibile sfruttare una visuale chiamata Penunbravisione, un escamotage utilizzato per farci trovare degli oggetti di interesse come computer, telecamere o collegamenti delle porte elettroniche. Questa stessa visuale ci permette di trovare alcuni spiriti da cui attingere forza vitale, ergo punti esperienza, necessari a salire di livello, ma per il resto, vengono i brividi solo a pensarci.

Anche graficamente il gioco pecca di semplicismo, ripetendo una serie di ambientazioni fino allo sfinimento, il tutto accompagnato da un level design piuttosto avvilente, che non cerca in alcun modo di venire incontro alle esigenze del gioco al fine di creare uno scenario più realistico e convincente.

Nemmeno la morte del personaggio, possibile nelle fasi più concitate in cui non vengono gestite correttamente cure e attacchi, è incapace di impensierire il giocatore, complice un sistema di checkpoint ad aree capace di riportarvi un attimo prima del combattimento appena compiuto.