Alone in the dark
di
Le fiamme e i crolli strutturali che minacciano di radere al suolo il grattacielo di Manhattan in cui la nuova avventura di Edward Carnby ha inizio sono un preoccupante messaggio di sventura; non solo entro la finzione narrativa, incentrata su un culto satanico che ha richiamato su New York forze ancestrali, ma anche, involontariamente, per il titolo stesso, franato in parte sotto il peso della sua stessa ambizione.
Fronteggiare Alone in the Dark é come trovarsi alle prese con un puzzle problematico; si intuisce un'immagine complessiva intrigante, una ricchezza di elementi che suscita aspettativa e voglia di mettersi all'opera, ma si rimane amaramente sorpresi quando le tessere si rivelano difettose e recalcitranti all'incastro, componendo un quadro un po' sconnesso.
E' stato forse pagato il tentativo di unificare entro la stessa, monumentale esperienza delle formule di gioco così differenziate da richiedere singolarmente un approfondimento ed una sintonia fine che sono alla resa dei conti mancati; per usare una metafora calcistica, é come se l'allenatore si fosse buttato con ammirevoli propositi nel progetto di un calcio totale all'olandese trascurando di concentrarsi a dovere sui fondamentali.
Quella di moderna avventura grafica in tre dimensioni, con rompicapi, interazioni contestuali ed eventi predeterminati da innescare intuendo la giusta iniziativa, é forse la natura più ispirata del gioco, soprattutto in virtù di un'enigmistica ambientale elaborata con buona dose di inventiva e facente leva sul versatile motore fisico.
Non si tratterà tanto di quesiti teorici su cui riflettere in modo statico, quanto dell'interpretazione pratica di rimedi a situazioni scomode; una porta di legno sprangata può essere divelta con la forza bruta sotto i colpi di un ariete di fortuna o con un mirato sparo alla serratura, un cancello di metallo robusto potrebbe invece richiedere l'innesco di una esplosione; un pullman in bilico sul precipizio può riguadagnare l'equilibrio dopo lo spostamento dei pesi al suo interno, e così via, passando per l'uso di catapulte e trampolini improvvisati, sempre nell'ottica della legge di azione e reazione.
Molto interessante é il ruolo giocato dagli elementi, come l'elettricità e soprattutto il fuoco; quest'ultimo ha ricevuto specifiche attenzioni, che vanno oltre l'estetica d'impatto. Seppur lontane da rappresentare una forza imprevedibile e di solito confinate entro spazi vitali così contornati da distinguersi ad occhio nudo nella scenografia, le fiamme digitali esibiscono fenomeni di propagazione, combustione dei materiali, spegnimento ed illuminazione, applicati a meccaniche tutto sommato schematiche ma nondimeno gradevoli.
Gli avvenimenti sono ripresi da inquadrature multiple, dalla terza persona alla soggettiva, passando per eventuali angoli fissi. Da una parte, l'esperienza acquista un dinamismo cinematografico, é forte di una varietà che le conferisce ampio respiro e offre al giocatore una certa discrezionalità di approccio alle singole scene; dall'altra, l'esclusività di talune azioni all'una o all'altra prospettiva - come il lancio di molotov o il combattimento di mischia, associati obbligatoriamente alla visualizzazione dell'avatar - porta ad un'alternanza alla lunga pedante, se non disorientante in occasione di certi bruschi cambi automatici di regia.
L'onerosa realizzazione di due prospettive ha portato ad un risultato non del tutto soddisfacente per ciascuna; é la presenza scenica di Edward Carnby a figura intera a destare più perplessità, complici l'incertezza della camera che lo segue da tergo ed il legnoso reparto animazioni messo in evidenza dalle fasi di stampo adventure.
Mentre s'affrontano salti, arrampicate, passeggiate su cornicioni, dondolamenti su cime di fortuna e combattimenti ravvicinati, permane una nota stonata, dovuta alla combinazione di movenze poco armoniche, collisioni mal rifinite, compenetrazioni poligonali e calcolo irrealistico delle distanze.
Gli scontri con il nemico si gestiscono vibrando fendenti con quanto lo scenario offre di contundente, dalle sedie alle sbarre di ferro, mediante repentine inclinazioni orizzontali o verticali dell'analogico destro; la scarsa precisione della procedura di indirizzamento e rilevazione dei colpi é in qualche maniera compensata dalle lacune dell'intelligenza artificiale. Le alternative offerte dalla prima persona sono il far fuoco con la pistola, munita di tracciatore laser ma un po' lenta da puntare con accuratezza, e l'affidarsi ad armi non convenzionali, come un lanciafiamme artigianale ricavato da un insetticida.
Gli inseguimenti in auto, inseriti per lo più come intertempi, prevedono margini ristrettissimi di improvvisazione nella condotta di gioco; concepiti sulla conoscenza mnemonica di ogni svolta ed ostacolo, ottusamente inflessibili, costringono a ripetere più volte il medesimo percorso, con l'aggravante dell'imprevedibilità comportamentale di una vettura che interagisce in maniera farraginosa con lo scenario.
Il modello di guida rivestirà un ruolo anche nei momenti di perlustrazione libera all'interno del Central Park, o meglio, della sua versione oscura, dissestata da terremoti, oppressa da una cortina di nebbia maligna e infestata da creature non più umane; quando non si ha a che fare con una lotta contro il tempo ed i ritmi si abbassano in concomitanza di flebili meccaniche free-roaming, basate sul muoversi tra punti di interesse sulla mappa e talvolta sull'ispezionare edifici sospetti, le disfunzioni permangono. In particolare, la fisica degli urti non sembra correttamente calibrata in funzione della velocità, con impatti d'intensità improbabile per eccesso o per difetto. Tali incurie in un aspetto così primario stridono con l'attenzione ai dettagli di cornice, come la messa in moto mediante il famigerato espediente dei cavetti elettrici, il cruscotto ispezionabile, l'accensione dei fari o l'esplorazione tra i sedili anteriori e posteriori.
Se a quanto descritto si aggiungono sporadiche sezioni trial and error (appesantite da checkpoint non sempre indulgenti), sfide contro boss di fine livello, quick time event e minigiochi assortiti, ci si può fare un'idea di quante caratteristiche trovino spazio e di quanto, proporzionalmente, la loro integrazione abbia comportato il rischio di imperfezioni.
Un gameplay così articolato é stato affidato ad una configurazione di controllo e ad una tipologia di interazioni tanto elaborate da non essere del tutto giustificabili.
Gilletti dorsali, leve analogiche, croce digitale, ogni singolo pulsante é adibito ad azioni che possono variare a seconda della situazione e dell'interfaccia del momento, andando ad inspessire una sorta di lenta burocrazia tra il giocatore e gli eventi su schermo.
L'inventario é stato integrato, in un'ottima intuizione, come ricerca nella propria giacca, dotata di tasche interne che accolgono un numero limitato di item spesso combinabili tra loro; l'impossibilità di mettere in pausa il corso degli eventi ispira ad una frettolosità che mette alla scoperto una tutt'altro che agile navigazione. Poter equipaggiare in maniera indipendente gli oggetti nelle due mani sembra aumentare la macchinosità più che diminuire i passaggi; non é raro trovarsi a tirar fuori la torcia elettrica, tra l'altro dotata di autonomia limitata che impone il pestifero ricambio manuale delle batterie, al posto dell'accendino o viceversa.
La schermata di cura delle ferite tramite spray medico, l'ispezione di armadietti e scaffali mediata da qualche procedura di apertura\chiusura\cambio di visuale di troppo, le indicazioni grafiche in sovraimpressione durante la preparazione del lancio di ordigni esplosivi, sono ulteriori esempi dell' eccessiva intromissione dell'interfaccia, che toglie qualcosa in termini di feeling e giocabilità; il nodo della questione é forse da ricercare nel conflitto di una simile impalcatura con situazioni di stampo action che reclamerebbero snellezza e tempistiche ristrette.
A tutto ciò si possono comunque prendere le misure con un minimo di pratica e abitudine; sono l'atmosfera ed il coinvolgimento emozionale a subire invece un effetto collaterale irreversibile; tensione e pathos sono ostacolati dal continuo pianificare gli step successivi del proprio agire attraverso il filtro spesso dei controlli. A prescindere dalle approssimazioni, gli stessi tempi dell'horror, fin dalle origini nel dna della saga, sono stati relegati in secondo piano dal prevalere della condotta manipolatoria alla McGyver (afferro il coltello, buco la bottiglia d'alcol, la lancio creando una scia di combustibile, cerco in tasca l'accendino, incendio la scia, applico nastro adesivo sul foro praticato, attendo l'esplosione), rispetto alle reazioni istintive come la fuga, l'attacco disperato o il senso di impotenza di fronte all'incombere del pericolo.
Fronteggiare Alone in the Dark é come trovarsi alle prese con un puzzle problematico; si intuisce un'immagine complessiva intrigante, una ricchezza di elementi che suscita aspettativa e voglia di mettersi all'opera, ma si rimane amaramente sorpresi quando le tessere si rivelano difettose e recalcitranti all'incastro, componendo un quadro un po' sconnesso.
E' stato forse pagato il tentativo di unificare entro la stessa, monumentale esperienza delle formule di gioco così differenziate da richiedere singolarmente un approfondimento ed una sintonia fine che sono alla resa dei conti mancati; per usare una metafora calcistica, é come se l'allenatore si fosse buttato con ammirevoli propositi nel progetto di un calcio totale all'olandese trascurando di concentrarsi a dovere sui fondamentali.
Quella di moderna avventura grafica in tre dimensioni, con rompicapi, interazioni contestuali ed eventi predeterminati da innescare intuendo la giusta iniziativa, é forse la natura più ispirata del gioco, soprattutto in virtù di un'enigmistica ambientale elaborata con buona dose di inventiva e facente leva sul versatile motore fisico.
Non si tratterà tanto di quesiti teorici su cui riflettere in modo statico, quanto dell'interpretazione pratica di rimedi a situazioni scomode; una porta di legno sprangata può essere divelta con la forza bruta sotto i colpi di un ariete di fortuna o con un mirato sparo alla serratura, un cancello di metallo robusto potrebbe invece richiedere l'innesco di una esplosione; un pullman in bilico sul precipizio può riguadagnare l'equilibrio dopo lo spostamento dei pesi al suo interno, e così via, passando per l'uso di catapulte e trampolini improvvisati, sempre nell'ottica della legge di azione e reazione.
Molto interessante é il ruolo giocato dagli elementi, come l'elettricità e soprattutto il fuoco; quest'ultimo ha ricevuto specifiche attenzioni, che vanno oltre l'estetica d'impatto. Seppur lontane da rappresentare una forza imprevedibile e di solito confinate entro spazi vitali così contornati da distinguersi ad occhio nudo nella scenografia, le fiamme digitali esibiscono fenomeni di propagazione, combustione dei materiali, spegnimento ed illuminazione, applicati a meccaniche tutto sommato schematiche ma nondimeno gradevoli.
Gli avvenimenti sono ripresi da inquadrature multiple, dalla terza persona alla soggettiva, passando per eventuali angoli fissi. Da una parte, l'esperienza acquista un dinamismo cinematografico, é forte di una varietà che le conferisce ampio respiro e offre al giocatore una certa discrezionalità di approccio alle singole scene; dall'altra, l'esclusività di talune azioni all'una o all'altra prospettiva - come il lancio di molotov o il combattimento di mischia, associati obbligatoriamente alla visualizzazione dell'avatar - porta ad un'alternanza alla lunga pedante, se non disorientante in occasione di certi bruschi cambi automatici di regia.
L'onerosa realizzazione di due prospettive ha portato ad un risultato non del tutto soddisfacente per ciascuna; é la presenza scenica di Edward Carnby a figura intera a destare più perplessità, complici l'incertezza della camera che lo segue da tergo ed il legnoso reparto animazioni messo in evidenza dalle fasi di stampo adventure.
Mentre s'affrontano salti, arrampicate, passeggiate su cornicioni, dondolamenti su cime di fortuna e combattimenti ravvicinati, permane una nota stonata, dovuta alla combinazione di movenze poco armoniche, collisioni mal rifinite, compenetrazioni poligonali e calcolo irrealistico delle distanze.
Gli scontri con il nemico si gestiscono vibrando fendenti con quanto lo scenario offre di contundente, dalle sedie alle sbarre di ferro, mediante repentine inclinazioni orizzontali o verticali dell'analogico destro; la scarsa precisione della procedura di indirizzamento e rilevazione dei colpi é in qualche maniera compensata dalle lacune dell'intelligenza artificiale. Le alternative offerte dalla prima persona sono il far fuoco con la pistola, munita di tracciatore laser ma un po' lenta da puntare con accuratezza, e l'affidarsi ad armi non convenzionali, come un lanciafiamme artigianale ricavato da un insetticida.
Gli inseguimenti in auto, inseriti per lo più come intertempi, prevedono margini ristrettissimi di improvvisazione nella condotta di gioco; concepiti sulla conoscenza mnemonica di ogni svolta ed ostacolo, ottusamente inflessibili, costringono a ripetere più volte il medesimo percorso, con l'aggravante dell'imprevedibilità comportamentale di una vettura che interagisce in maniera farraginosa con lo scenario.
Il modello di guida rivestirà un ruolo anche nei momenti di perlustrazione libera all'interno del Central Park, o meglio, della sua versione oscura, dissestata da terremoti, oppressa da una cortina di nebbia maligna e infestata da creature non più umane; quando non si ha a che fare con una lotta contro il tempo ed i ritmi si abbassano in concomitanza di flebili meccaniche free-roaming, basate sul muoversi tra punti di interesse sulla mappa e talvolta sull'ispezionare edifici sospetti, le disfunzioni permangono. In particolare, la fisica degli urti non sembra correttamente calibrata in funzione della velocità, con impatti d'intensità improbabile per eccesso o per difetto. Tali incurie in un aspetto così primario stridono con l'attenzione ai dettagli di cornice, come la messa in moto mediante il famigerato espediente dei cavetti elettrici, il cruscotto ispezionabile, l'accensione dei fari o l'esplorazione tra i sedili anteriori e posteriori.
Se a quanto descritto si aggiungono sporadiche sezioni trial and error (appesantite da checkpoint non sempre indulgenti), sfide contro boss di fine livello, quick time event e minigiochi assortiti, ci si può fare un'idea di quante caratteristiche trovino spazio e di quanto, proporzionalmente, la loro integrazione abbia comportato il rischio di imperfezioni.
Un gameplay così articolato é stato affidato ad una configurazione di controllo e ad una tipologia di interazioni tanto elaborate da non essere del tutto giustificabili.
Gilletti dorsali, leve analogiche, croce digitale, ogni singolo pulsante é adibito ad azioni che possono variare a seconda della situazione e dell'interfaccia del momento, andando ad inspessire una sorta di lenta burocrazia tra il giocatore e gli eventi su schermo.
L'inventario é stato integrato, in un'ottima intuizione, come ricerca nella propria giacca, dotata di tasche interne che accolgono un numero limitato di item spesso combinabili tra loro; l'impossibilità di mettere in pausa il corso degli eventi ispira ad una frettolosità che mette alla scoperto una tutt'altro che agile navigazione. Poter equipaggiare in maniera indipendente gli oggetti nelle due mani sembra aumentare la macchinosità più che diminuire i passaggi; non é raro trovarsi a tirar fuori la torcia elettrica, tra l'altro dotata di autonomia limitata che impone il pestifero ricambio manuale delle batterie, al posto dell'accendino o viceversa.
La schermata di cura delle ferite tramite spray medico, l'ispezione di armadietti e scaffali mediata da qualche procedura di apertura\chiusura\cambio di visuale di troppo, le indicazioni grafiche in sovraimpressione durante la preparazione del lancio di ordigni esplosivi, sono ulteriori esempi dell' eccessiva intromissione dell'interfaccia, che toglie qualcosa in termini di feeling e giocabilità; il nodo della questione é forse da ricercare nel conflitto di una simile impalcatura con situazioni di stampo action che reclamerebbero snellezza e tempistiche ristrette.
A tutto ciò si possono comunque prendere le misure con un minimo di pratica e abitudine; sono l'atmosfera ed il coinvolgimento emozionale a subire invece un effetto collaterale irreversibile; tensione e pathos sono ostacolati dal continuo pianificare gli step successivi del proprio agire attraverso il filtro spesso dei controlli. A prescindere dalle approssimazioni, gli stessi tempi dell'horror, fin dalle origini nel dna della saga, sono stati relegati in secondo piano dal prevalere della condotta manipolatoria alla McGyver (afferro il coltello, buco la bottiglia d'alcol, la lancio creando una scia di combustibile, cerco in tasca l'accendino, incendio la scia, applico nastro adesivo sul foro praticato, attendo l'esplosione), rispetto alle reazioni istintive come la fuga, l'attacco disperato o il senso di impotenza di fronte all'incombere del pericolo.