Atomfall, la recensione: l'apocalisse tutta Inglese di Rebellion

Un viaggio tra foreste contaminate, culti pagani e telefoni che sanno troppo, in un’Inghilterra post-nucleare dove il vero nemico è l’incertezza.

Atomfall la recensione lapocalisse tutta Inglese di Rebellion

Atomfall non racconta l’apocalisse che ci aspettiamo. Niente deserti infiniti, razziatori in giacche di pelle o bunker numerati da cui riemergere. Qui il disastro ha il volto del verde perfetto della campagna inglese, degli autobus rossi abbandonati nei prati, dei villaggi rurali che nascondono presidi militari sotto la facciata del quotidiano.

Sviluppato da Rebellion, il gioco ci porta nel nord dell’Inghilterra, nella Cumbria, una regione celebre per le sue colline, i laghi e le cartoline da passeggiata estiva. Eppure, nel 1957, fu proprio lì che esplose il primo grande disastro nucleare occidentale: l’incidente di Windscale.

Da quel momento, qualcosa si è spezzato. Cinque anni dopo, l’intera area è sigillata dal governo. Nessun contatto con l’esterno, nessuna spiegazione. Solo silenzio, e la sensazione che chi è rimasto dentro stia scrivendo una nuova storia a modo suo.

Per chi arriva da Fallout o S.T.A.L.K.E.R., l’inizio può sembrare una deviazione lungo una strada già battuta. Ma presto ci si accorge che questa non è l’autostrada di Mad Max, quanto piuttosto un sentiero fangoso e sottile, dove ogni passo può farti perdere l’orientamento. Atomfall gioca un’altra partita: più sobria, più ambigua, più britannica. Niente retrotech o cinismo post-nucleare: qui si sopravvive, si dubita, si cerca di capire, tra rottami, credenze, culti e voci che parlano da vecchie cabine telefoniche, continuando a domandarsi se stiano guidando o solo confondendo.

È un mondo che puoi solo imparare a decifrare, un passo alla volta. Tra indizi da interpretare, strade che si chiudono senza avviso, alleanze da pesare parola per parola e combattimenti dove ogni colpo può essere l’ultimo, Atomfall si presenta come una delle esperienze più originali in cui ci siamo imbattuti. Una fine del mondo tutta britannica, dove l’orrore non urla, ma sussurra piano piano.

Atomfall, la recensione: l'apocalisse tutta Inglese di Rebellion
Il gameplay di Atomfall. Crediti: Rebellion.

La fine del mondo che non sapeva di essere tale: trama, scelte e illusioni in Atomfall

In Atomfall veniamo gettati nell'azione senza troppi preamboli, svegliandoci insieme al protagonista da soli, chiusi in un bunker. Nessun nome, nessun ricordo, nessuna spiegazione. E fuori, sorprendentemente, non c’è il mondo devastato che ci si aspetterebbe dopo un disastro nucleare. C’è il verde. C’è il silenzio. C’è un tempo sospeso. Come se tutto si fosse fermato un istante prima del crollo. È il cuore della zona di quarantena di Windscale, nel nord dell’Inghilterra, sigillata da cinque anni dopo un evento che ha segnato la storia.

Nel 1957, un reattore nucleare prende fuoco: è il primo vero disastro atomico dell’Occidente. Da qui, Rebellion costruisce la sua distopia: una Cumbria murata e dimenticata, dove nessuno entra e nessuno esce, e dove chi è rimasto ha dovuto riscrivere da zero le regole della sopravvivenza. Un mondo che non si è spento, ma che ha imparato a funzionare da solo.

Qui non ci sono rovine fumanti né paesaggi carbonizzati come nel West-Virginia di Fallout. C’è un ordine strano, costruito a fatica. I villaggi, come Wyndham, sembrano voler conservare le vecchie abitudini come se non fosse successo nulla, ma appena fuori dai centri abitati si incontrano culti pagani, bande di predoni e persino creature deformate dall’esposizione negli anfratti più bui. Ogni fazione vive in una realtà tutta sua, e ogni equilibrio è precario. Con l’arrivo del giocatore, quel silenzio si incrina: non perché sia un eroe, ma perché è l’unico volto nuovo in una zona chiusa da anni, una variabile imprevista in un ecosistema che si era illuso di essere stabile. E proprio come il mondo, anche la storia comincia a deformarsi.

Atomfall, la recensione: l'apocalisse tutta Inglese di Rebellion
Atomfall, un robot. Crediti: Rebellion.

La narrazione non segue percorsi predefiniti. Niente waypoint, nessuna missione evidenziata. Almeno non nella modalità “Survivor”, pensata come l’esperienza canonica. Tutto si basa sull’osservazione, sull’intuizione, su una struttura che premia l’attenzione e la memoria, oltre che una lettura molto attenta del diario. 

Ogni progresso nasce dall’intuizione, dalla memoria, dalla capacità di leggere il mondo come un puzzle incompleto. E nel mezzo di questo puzzle c’è un personaggio che non ha forma. Nessun nome, nessun passato, nessuna etichetta: il protagonista è una figura neutra che prende senso solo attraverso ciò che fa. Ogni decisione apre possibilità e ne chiude altre. Alcune si notano subito, altre molto più avanti.

A volte, sono le vecchie cabine telefoniche inglesi, rosse, iconiche, a parlare. Si trovano isolate lungo le strade, o nascoste nei boschi. Quando squillano, dentro c’è una voce roca che chiede di uccidere qualcuno — o qualcosa. I suoi messaggi sono inquietanti, criptici, come scritti da una regia segreta che sembra conoscere tutto, ma non si sa perché. Ogni nuova chiamata insinua il dubbio: che il gioco non voglia solo mettere alla prova il personaggio, ma anche chi lo sta controllando.

Scelte senza ritorno: esplorazione e sopravvivenza nel cuore della Zona

L’universo di Atomfall non si preoccupa di accompagnare il giocatore passo dopo passo. Anzi, lo lascia solo fin dal menu iniziale, chiedendogli di scegliere tra cinque stili di gioco diversi, ognuno calibrato su un equilibrio differente tra combattimento, esplorazione e gestione delle risorse. Tra tutti, la modalità Survivor è quella raccomandata dagli sviluppatori: niente indicatori, niente frecce, nessuna guida visibile. Solo il mondo, e l’intuito di chi lo attraversa.

È un sistema costruito attorno alle tracce, che potremmo trattare come frammenti di informazioni, oggetti abbandonati, lettere, confessioni sussurrate che non raccontano la verità, ma invitano a cercarla. Eppure, fidarsi delle tracce può essere pericoloso. Alcune conducono a svolte importanti, altre chiudono per sempre alternative che non si potranno più percorrere. Ogni decisione diventa parte di un’identità in formazione, una figura che prende forma solo attraverso le sue scelte.

A sostenere questa struttura c’è un open world diviso in macroaree interconnesse, tutte accessibili sin dall’inizio. Nessun confine artificiale impone limiti, ma a farlo sono le condizioni ambientali e il livello di rischio. Esplorare significa osservare, ma anche valutare quanto si è pronti a perdere. Il mondo non è enorme, ma è denso, segmentato da barriere naturali, grotte, fiumi, pendii e silenzi.

Sopravvivere, del resto, non è mai garantito. Le risorse sono scarse e l’inventario ridotto: non c’è spazio per l’accumulo compulsivo da RPG tradizionale, ogni oggetto va pesato, valutato, sacrificato. Il denaro non esiste. Si scambia, si baratta, si improvvisa. E in mezzo a tutto questo, il metal detector diventa uno strumento chiave per scovare materiali sepolti, documenti nascosti o casse piene di possibilità.

Il crafting è parte integrante dell’esperienza, ma non ti viene mai servito su un piatto d’argento. Le ricette vanno cercate, come indizi, e solo scoprendole è possibile creare tonici, armi improvvisate o strumenti che modificano temporaneamente le proprie capacità. Ogni creazione è una risposta a un problema reale: un nemico troppo forte, una zona tossica, un bivio da affrontare con qualcosa in più nello zaino.

Anche il combattimento segue la stessa logica: niente fronzoli, solo istinto e lucidità. Il corpo a corpo è sorprendentemente fisico, soddisfacente, ma va dosato con intelligenza. Non basta premere un tasto: bisogna gestire la distanza, il tempo, la fatica. E quando i nemici sono più di uno, ogni secondo può diventare l’ultimo. Diverso — e forse più spietato — è l’approccio con le armi da fuoco. I proiettili sono contati, e sparare richiede concentrazione. Il battito cardiaco del protagonista influenza la stabilità della mira, mentre la traiettoria dei colpi non è mai perfetta. Bisogna leggere l’ambiente, respirare a fondo, scegliere il momento giusto. Ogni colpo sprecato è una risorsa persa. Ogni colpo riuscito è una boccata d’ossigeno.

In Atomfall, il combattimento non è mai obbligato. Ma quando accade, è sempre decisivo. E proprio perché ogni scontro è scelto, ogni scontro lascia un segno.

Direzione artistica e comparto visivo di Atomfall: quando il bello nasconde l’orrore

Atomfall, la recensione: l'apocalisse tutta Inglese di Rebellion
Il mondo del videogioco Atomfall. Crediti: Rebellion.

In Atomfall, non è la grafica a cercare di stupire: è l’atmosfera a farti abbassare la voce. Niente effetti speciali abbaglianti, niente modelli iperrealistici. Solo un mondo apparentemente quieto, dove la luce filtra tra gli alberi di una foresta contaminata e i paesaggi bucolici sembrano osservarti da lontano, come se sapessero più di te.

La Cumbria immaginata da Rebellion è rurale, verde, limpida e proprio per questo disturbante. Il gioco prende l’ordinario e lo carica di tensione: una cabina telefonica in mezzo a un prato, un autobus rosso piantato come una barricata, una casa perfettamente intatta ma vuota da anni. Non c’è nulla di esplicitamente ostile, eppure tutto sembra fuori posto. Ogni elemento visivo è un dettaglio narrativo, un avvertimento implicito.

Eppure, dietro questa messa in scena sobria si nasconde una struttura sorprendentemente stabile. Su una configurazione con RTX 4060 Ti, grafica impostata su “alto” e schermo ultrawide 21:9, Atomfall mantiene un framerate elevato e costante, anche nelle zone più dense o durante gli scontri. Una dimostrazione chiara del lavoro fatto sul fronte dell’ottimizzazione: pulita, essenziale, senza sbavature.

Il motore grafico non cerca il fotorealismo: punta alla coerenza, e ci riesce. Colori desaturati ma leggibili, texture sobrie, una luce che non mostra ma insinua. Di giorno, tutto sembra filtrato da un vetro opaco; di notte, il buio non protegge né nasconde del tutto. La zona di quarantena vive, sì, ma non ti vuole bene. Lo stesso principio vale per il design dei personaggi. Le espressioni facciali sono ridotte all’essenziale, le animazioni fisiche — come il ragdoll per esempio — risultano semplici e asciutte. Ma non è disattenzione: è coerenza. È lo stile Rebellion, già visto in Sniper Elite e Zombie Army: meno enfasi sullo spettacolo, più attenzione alla funzione narrativa, al “dire solo quando serve”.

L’interfaccia, infine, segue questa stessa logica. Minimalista, non invasiva, quasi invisibile. Poche icone, nessun orpello grafico: Atomfall vuole che sia il mondo il tuo vero HUD. E così, impari a leggere un cielo troppo giallo, una strada troppo vuota, una calma che non promette nulla di buono.



 

 

 

Atomfall

Versione Testata: PC

Una scena di Atomfall Crediti Rebellion

Atomfall

Atomfall è un’esperienza che merita tempo, attenzione e dedizione. Per questo motivo, non assegniamo ancora un voto: il tempo a nostra disposizione non è stato sufficiente per esplorare ogni aspetto del gioco in profondità. Preferiamo prenderci il giusto spazio per valutare l’opera nella sua interezza.

 

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