Breakdown
di
Consuetudine di Gamesurf, è la fredda constatazione di come il mercato attuale offra sempre meno titoli per cui l'esperienza ludica assuma il sapore della scoperta. Rassegnata allo stato delle cose attuali, è dunque portata a guardare con un occhio di riguardo "chiunque" tenti la strada nuova, proponendo qualcosa di diverso.
Ogni creazione è, all'origine, la lotta di una forma in potenza contro una forma imitata (Andrè Malraux).
Arriva un giorno nell'universo videoludico in cui, un videogioco, per andare dove deve andare, per rinnovare il proprio itinerario e svilupparsi, salire un altro gradino dell'a volte beffarda scala evolutiva, in mancanza di porte e finestre si trova costretto a sfondare la parete. Breakdown è una personalità a tutto campo nel mondo videoludico. Ma non solo. E' un catalogo di luoghi comuni, un insieme di clichè pluriabusati (a partire dalla trama), una mistura di generi che salpa con la nave dell'imitazione fino alle sponde del già visto, lungo un tragitto impervio di ostacoli corrispondenti alle limitazioni o superficialità realizzative che si porta dietro. Come entrare in un'enoteca e assaggiare diversi vini senza mai trovarne uno amabile, magari d'annata.
Il proposito della Namco - racchiudere più generi in un'unica esperienza videoludica - trova ostacolo nella natura stessa del proprio proposito: Breakdown non propone niente di nuovo, ce lo dice lui stesso per bocca dei suoi primi centoventi minuti di gioco. Breakdown non sfonda nessuna parete, si affaccia invece a una finestra e, vedendo la disinvoltura delle molteplici dinamiche di gioco implementate nei titoli di ultima generazione, cerca anch'esso di metter su il classico minestrone di trovate, quel mix di generi che al giorno d'oggi assume le sembianze di un'invettiva a miriadi di titoli puri, che vivono nell'intimità delle forze elementari che li compongono. Breakdown ha invece una visione d'insieme, un gameplay poliedrico che abbraccia - non troppo calorosamente - più e più generi pur non trovando il giusto bilanciamento tra le parti. Ma il suo sforzo è pregevole, sia ben inteso, uno sforzo teso, seppur in parte minore, anche alla ricerca di nuove forme espressive.
L'impostazione della visuale di gioco, rigorosamente in prima persona, conferisce al giocatore una dimensione totalmente nuova e concorre non poco nell'economia del coinvolgimento. Pur spaesato e intontito dai rapidi spostamenti della telecamera, il fruitore ha comunque modo di vivere in prima esperienza l'avventura, essere un tutt'uno col proprio alter ego digitale. Questo può essere giudicato il centro significante dell'intera esperienza ludica che il pargolo Namco è in grado di offrire, ma porta con sé numerosi vantaggi e altrettanti svantaggi, come l'incapacità di coniugare degnamente questa nuova prospettiva con meccaniche di gioco che richiedono un campo visivo ben più ampio. La peculiarità distintiva della visuale di gioco ha notevoli risvolti che assicurano un grado di realismo non indifferente e, come già poco sopra accennato, un'immedesimazione semi-totale col protagonista, previa assunzione di pastiglia in formato maxi per il mal di mare. Dapprincipio la telecamera il cui spostamento è ovviamente affidato allo stick analogico di destra oscilla, traballa, si muove a velocità bastardamente alte e non risparmia mal di testa a iosa neanche al quaker più navigato. Dopo qualche ora di ambientamento (ovvero arrivati ai ¾ dell'avventura), vedere il mondo filtrato attraverso gli occhi di Derrick diventa quasi naturale. Ma non è stata una passeggiata, anche perché poi fa irruzione un sistema di controllo macchinoso a rovinare la festa.
Arriva un giorno nell'universo videoludico in cui, un videogioco, per andare dove deve andare, per rinnovare il proprio itinerario e svilupparsi, salire un altro gradino dell'a volte beffarda scala evolutiva, in mancanza di porte e finestre si trova costretto a sfondare la parete. Breakdown è una personalità a tutto campo nel mondo videoludico. Ma non solo. E' un catalogo di luoghi comuni, un insieme di clichè pluriabusati (a partire dalla trama), una mistura di generi che salpa con la nave dell'imitazione fino alle sponde del già visto, lungo un tragitto impervio di ostacoli corrispondenti alle limitazioni o superficialità realizzative che si porta dietro. Come entrare in un'enoteca e assaggiare diversi vini senza mai trovarne uno amabile, magari d'annata.
Il proposito della Namco - racchiudere più generi in un'unica esperienza videoludica - trova ostacolo nella natura stessa del proprio proposito: Breakdown non propone niente di nuovo, ce lo dice lui stesso per bocca dei suoi primi centoventi minuti di gioco. Breakdown non sfonda nessuna parete, si affaccia invece a una finestra e, vedendo la disinvoltura delle molteplici dinamiche di gioco implementate nei titoli di ultima generazione, cerca anch'esso di metter su il classico minestrone di trovate, quel mix di generi che al giorno d'oggi assume le sembianze di un'invettiva a miriadi di titoli puri, che vivono nell'intimità delle forze elementari che li compongono. Breakdown ha invece una visione d'insieme, un gameplay poliedrico che abbraccia - non troppo calorosamente - più e più generi pur non trovando il giusto bilanciamento tra le parti. Ma il suo sforzo è pregevole, sia ben inteso, uno sforzo teso, seppur in parte minore, anche alla ricerca di nuove forme espressive.
L'impostazione della visuale di gioco, rigorosamente in prima persona, conferisce al giocatore una dimensione totalmente nuova e concorre non poco nell'economia del coinvolgimento. Pur spaesato e intontito dai rapidi spostamenti della telecamera, il fruitore ha comunque modo di vivere in prima esperienza l'avventura, essere un tutt'uno col proprio alter ego digitale. Questo può essere giudicato il centro significante dell'intera esperienza ludica che il pargolo Namco è in grado di offrire, ma porta con sé numerosi vantaggi e altrettanti svantaggi, come l'incapacità di coniugare degnamente questa nuova prospettiva con meccaniche di gioco che richiedono un campo visivo ben più ampio. La peculiarità distintiva della visuale di gioco ha notevoli risvolti che assicurano un grado di realismo non indifferente e, come già poco sopra accennato, un'immedesimazione semi-totale col protagonista, previa assunzione di pastiglia in formato maxi per il mal di mare. Dapprincipio la telecamera il cui spostamento è ovviamente affidato allo stick analogico di destra oscilla, traballa, si muove a velocità bastardamente alte e non risparmia mal di testa a iosa neanche al quaker più navigato. Dopo qualche ora di ambientamento (ovvero arrivati ai ¾ dell'avventura), vedere il mondo filtrato attraverso gli occhi di Derrick diventa quasi naturale. Ma non è stata una passeggiata, anche perché poi fa irruzione un sistema di controllo macchinoso a rovinare la festa.