Burnout Paradise
Questi ultimi due anni sono stati, in tutto e per tutto, gli anni dei grandi ritorni. Questo ritrovato flashback ha un retrogusto affascinante, probabilmente coadiuvato da un connubio di sensazioni piacevoli che vengono avvertite su più livelli.
Diciamoci la verità, i giocatori sono fortemente spaccati in due fazioni: casual gamer e nostalgic gamer. Il perché lo si capisce dalle produzioni che ci hanno bombardato negli ultimi anni, un continuo guardare indietro che sembra puntare alla proposta di un prodotto già visto e giocato, magari semplicemente “restaurato” dal punto di vista grafico.
In molti parlano di mancanza di nuove idee, ma forse la verità è che ci troviamo in quella pericolosa fase di mezzo dove le maggiori software house hanno messo da parte produzioni di maggior rilievo per pescare, dal cestone dei ricordi, quei titoli che hanno a tutti gli effetti segnato i nostri pomeriggi videoludici.
Burnout è una di quelle serie, inutile negarlo. Electronic Arts ci ha visto lungo, tentando di fare il colpo grosso in un momento dove i titoli di guida puntano maggiormente sul realismo (vedesi GT e Forza Motorsport), lasciando da parte quell’anima arcade più scanzonata che in fondo, almeno, piace un po' a tutti.
UN ASSOLO DI SLASH E VINCI TUTTO…
Paradise City è rimasta la stessa città di dieci anni fa. Ogni vicolo, strada, scorciatoia e via dicendo sono rimasti invariati nel tempo, proponendo la stessa urbanistica folle che in passato ci aveva fatto perdere la testa. Grazie alla costruzione di questo piccolo open-world, fabbricato per un unico scopo, ogni parapetto, bidone, macchina civile sono stati disposti sulla strada come diversivo, o meglio, come uno strumento da sfruttare per spingere i nostri avversari verso il takedown.
Il gameplay ha mantenuto ogni meccanica, mantenendo a tutti gli effetti invariato il sistema di progressione che spingeva il giocatore a vincere ogni gara proposta dal gioco, ottenendo preziosi punti utili a sbloccare un nuovo livello sulla propria patente. Il parco macchine viene gestito a discrezione del giocatore, nel senso che salendo di livello vengono sbloccate macchine diverse (più potenti) che potranno essere sbloccate cercandole in giro per Paradise City e distruggendole, poi, tramite takedown. Ogni automobile appartiene a una fascia turbo, tra le tre a disposizione, ognuna pronta ad adattarsi non soltanto allo stile di gioco ma anche alla tipologia di corse che si potranno affrontare nel corso del tempo.
L’esplorazione della città diventa pertanto un processo naturale, coadiuvato dal fatto che moltissime gare ci spingono a raggiungere zone molto lontane tra loro, senza darci alcuna minima indicazione fissa sul tracciato da seguire. Non esistono barriere architettoniche pronte a spianarci il percorso, motivo per cui sarà opportuno affinare i riflessi decidendo se seguire la mini-mappa, oppure la bussola presente in alto. Difficile dire quale tra le due sia la migliore, in termini di praticità, ma il consiglio è quello di studiarsi a fondo il layout della città corsa dopo corsa, così da poter bypassare i suggerimenti e correre la propria gara senza alcun disturbo.
Aprendo bene gli occhi non mancano i riferimenti standard utili a farci scoprire una scorciatoia, o un salto, ed è bello constatare come l’anima di Burnout sia rimasta invariata nel tempo, cristallizzata in una forma praticamente quasi perfetta. Il quasi è d’obbligo, perché nel caso di Burnout Paradise questo attaccamento alle origini serve il fianco a critiche nei confronti di alcune meccaniche che potevano sinceramente essere migliorate, se non altro per rendere il titolo più fluido.
…O QUASI
Il titolo sviluppato da Criterion ha resistito agli anni meglio di altri, ma il lavoro di restauro svolto per questa remastered sembra essersi concentrato maggiormente sulla grafica, lasciando purtroppo da parte una serie di piccole modifiche utili a svecchiare un sistema essenzialmente legnoso.
Gara dopo gara si avverte una piccola sensazione di monotonia, se non altro perché facendo avanzare di livello la patente di guida le gare si resettano, ma restano praticamente le stesse. Questo fattore rende il gameplay lievemente frustrante, se non altro perché si ha la sensazione di ripetere le stesse azioni senza percepire un senso di progressione.
La bonarietà dei contenuti occupa anch’essa le due facce della stessa medaglia, proponendo un parco macchine incredibilmente performante ma accessibile sin da subito, con conseguente semplificazione delle gare da svolgere. Trovarsi a guidare una macchina ipertecnologica, con tanto di cambio sequenziale con accesso simultaneo ai diversi turbo disponibili, rende sicuramente le vostre corse molto più facili del previsto.
La mappa nasconde carrozzerie, benzinai e sfasciacarrozze, motivo per cui sarà il giocatore stesso a dover tenere lo sguardo vigile sulla strada al fine di ricercarne gli accessi, con conseguente sblocco in legenda nella mini-mappa in dotazione.
RESTAURO VISIVO – TOP!
Il lavoro di conversione gestito da Ghost Games svela un’attenzione attenta ai particolari, tant’è che sul profilo prettamente tecnico ogni aspetto del gioco è stato rifinito, migliorando gli asset originali con l’obiettivo di riportare in vita al gioco senza alcun tipo di sbavatura.
I test avvenuti su Xbox One S hanno mostrato una piacevole stabilità di framerate, che risulta ancorato sui 60 fps senza il minimo segno di cedimento. Certo, il gioco era già performante ai tempi della old-gen, ma sinceramente il lavoro di conversione è da votare con lode in un momento dove spesso, purtroppo, si tende a fare semplici passaggi di porting senza il minimo criterio.
Gli scenari risultano brillanti e definiti, merito di un comparto di illuminazione gestito alla perfezione, che riesce a giocare senza il minimo problema sia di giorno che di notte. Anche gli altri effetti mantengono un profilo altissimo, lasciandoci il piacere di goderci sterrato e derapate (con relativo fumo) nel miglior modo possibile.