Condemned: Criminal Origins

di Pietro Puddu
Da buon esponente dell'horror videludico, Condemned punta a colpo sicuro sulle paure più tradizionali: solitudine, buio, decadenza.
La solitudine è al contempo la maledizione e l'ultima speranza di Ethan Thomas, precipitato (nel senso più letterale del termine) dal rango di rispettato investigatore del FBI a quello di presunto duplice omicida, braccato dai suoi stessi colleghi e dalle ombre di un male strisciante; un solo contatto telefonico per ancora di salvezza, diverse conoscenze ravvicinate di reietti, assassini, deformità ai confini della natura umana.
Il buio è l'onnipresente ostacolo tra i sensi e la realtà, un velo denso che stimola l'adrenalina e ravviva le percezioni nello sforzo di individuazione dei potenziali, forse immancabili pericoli in agguato. E' la notte che sembra non passare mai, che abita nei vicoli sudici, nei basamenti degli edifici abbandonati, nei tunnel della metro, nelle fognature, parzialmente diradata solo dal fascio malfermo di una torcia elettrica.
La decadenza è la malattia che ha impestato la città, un morbo annunciato dai cadaveri in putrefazione di migliaia di uccelli caduti, incubato nelle periferie suburbane, dilangante in un vortice di violenza e criminalità che non ammette spiegazioni razionali.


Al contrario di ciò che distrattamente si potrebbe pensare, dopo una scorsa alla visuale in prima persona esibita negli screenshots, Condemned non è il classico FPS; le rare occasioni in cui le armi fuoco si renderanno usufruibili, nei limiti imposti da caricatori semi esauriti, saranno delle brevi, fortunate parentesi nella lotta corpo a corpo, combattuta a colpi d'oggetti contundenti in un gran spargimento di sangue. Osservando l'implementazione delle tempistiche d'attacco e difesa, le variazioni di efficacia e maneggevolezza tra gli improvvisati strumenti offensivi, la fisicità degli impatti e le rabbiose reazioni di dolore del nemico ferito, viene da chiedersi quanto un'analoga cura realizzativa avrebbe giovato ad un titolo come il recente Oblivion; rimane comunque il dubbio sottile che tali sezioni d'azione, nonostante il valore terapeutico dopo logoranti sessioni di tesa esplorazione, siano state a tratti esasperate, forzando il confronto con individui psicotici fin troppo coriacei, numerosi o ridondanti nelle fattezze.

L'aspetto puramente investigativo è una costante sul piano parallelo a quello della forza bruta; sulle tracce di alcuni serial killer, esecutori capitali al servizio di uno sfuggente intento demoniaco, si renderà indispensabile la raccolta di indizi e prove chiave, grazie all'aiuto dei dispositivi tecnologici in dotazione agli agenti del reparto CSI. Il rivelatore di tessuto organico, il campionatore di DNA e la fotocamera a infraverdi saranno insostituibili nella ricostruzione degli eventi ma estremamente limitati nella libertà d'utilizzo; l'interfaccia suggerisce volta per volta una procedura d'analisi guidata e immutabile, che porta inevitabilmente alla linearità ma scongiura frustranti perlustrazioni costellate da infruttuosi tentativi d'indagine: il gameplay diventa subordinato alla narrazione interattiva.


Il vero obbiettivo del thriller di Monolith è il coinvolgimento emotivo del giocatore in un contesto coerente e claustrofobico.
Il degrado rugginoso delle ambientazioni - per certi versi assimilabile alle suggestioni scenografiche della serie Silent Hill - riflette la corruzione morale ed intellettiva delle creature che le popolano, esseri striscianti da nascondiglio in nascondiglio, rivelati da bagliori intermittenti di luce artificiale e predisposti alla cieca aggressività; le sonorità di sottofondo miscelano ronzii, vibrazioni industriali, stridori metallici, silenzi raggelanti, urla di follia, lasciando il passo in poche occasioni a musiche ancora sinistre ma vagamente ritmate. E' la manifestazione del paranormale, in parte giustificata dalle sensibilità extrasensoriali del protagonista, a creare i momenti di maggior pathos; la realtà può distorcersi senza soluzione di continuità in illusioni disturbanti, a volte fini a se stesse e sfocianti nella sola inquietudine, a volte determinanti negli sviluppi dell'investigazione per la valenza premonitrice o la funzione di flashback. Anche l'espediente più gratuito e diretto dello spavento trova il suo spazio, costringendo talvolta ad imbarazzanti salti sulla sedia con relativo pensiero alle proprie coronarie; apparizioni repentine, crolli strutturali e ombre irridenti giocheranno dei brutti scherzi.

Per attuare e valorizzare simili scelte di regia non si poteva che far affidamento su un impianto tecnologico di rilievo; la naturale evoluzione dell'engine di F.e.a.r. eccelle nel dettaglio poligonale di locazioni e modelli, gestisce un gran numero di effetti particellari e fa sfoggio di un sublime sistema di illuminazione dinamica che conferisce profondità e realismo all'immagine. Le texture ambientali ricreano con efficacia pittorica un'ampia varietà di superfici sporche, graffiate, marcescenti e sanguinolente; l'uso massiccio di filtri e di post-processing ricrea atmosfere cinematografiche e sottolinea le saltuarie escursioni nell'onirico. Il resto lo fanno le animazioni, non sempre naturali ma raccordate tra loro con estrema attenzione, e l'implementazione delle routine fisiche Havoc, ancora perfezionabili per quanto concerne il rag-doll ma perfette nel garantire l'interattività ed il mutamento in tempo reale dei fondali.