Deathbound, il party-based soulslike non è l’anima della festa – Recensione PC

La recensione dell’action-RPG di Trialforge Studios, una cupa avventura sui generis ispirata ai soliti ignoti, caratterizzata da idee interessanti ma anche da una realizzazione fallace 

di Jacopo Retrosi
 

Sviluppato dal team brasiliano Trialforge Studios sotto l’egida di Tate Multimedia, Deathbound è un altro “soulslike” da aggiungere alla caterva di action-RPG in terza persona chiaramente ispirati alle produzioni From Software. Lento, impegnativo, un po’ impacciato e caratterizzato da meccaniche pensate più per mettere i bastoni tra le ruote al giocatore piuttosto che intrattenerlo, una ricetta nel complesso competente ma piuttosto sui generis, nulla che i veterani del genere non abbiano già affrontato e qualcosa che di certo non farà cambiare idea ai suoi detrattori. Cosa distingue dunque Deathbound dal resto dei suoi coetanei?

Ebbene, si tratta della dinamica “party-based che regola la gestione del personaggio, o forse dovremmo dire dei personaggi. Pur rimanendo un’esperienza prettamente singleplayer, in Deathbound il giocatore non controllerà un singolo avatar, magari creato ad hoc tramite apposito editor, bensì un’intera squadra di “eroi” (diciamo che c’è ben poco di eroico nelle loro gesta e nei loro modi di fare), potendone “equipaggiare” quattro per volta all’interno di una rosa di massimo sette. 

Inizieremo la nostra avventura nei panni del solo cavaliere Therone (c’è qualcosa di profondamente sbagliato nei nomi scelti dagli sviluppatori per persone e location NdR), ma proseguendo la crociata avremo modo di raccogliere le “essenze” di altri guerrieri caduti e sfruttarne il kit di sopravvivenza. Ogni personaggio vanta infatti pregi e difetti ben definiti, che ne determinano il ruolo sul campo di battaglia.

Il nostro già menzionato cavaliere ad esempio può attaccare con la spada e difendere con lo scudo, ma è completamente inerme dalla distanza; l’assassino può aggredire alle spalle i bersagli ignari e colpire a lungo raggio con la balestra, ma non è un granché negli scontri ravvicinati; o ancora, l’essencemancer (il mago in pratica) può sparare dardi velenosi dalla distanza e infliggere gravi danni senza sporcarsi le mani, ma deve gestire il “calore” delle sue magie o rischia di esplodere, letteralmente, ed è fatto di carta. 

Ogni personaggio del party presenta una propria barra vita, la cui percentuale massima coincide con quella della stamina (ergo poca salute, niente combo o schivate), ma se ne muore uno schiattano tutti, si perdono le anime accumulate e tocca rifarsi la strada a piedi sperando di non perderle per sempre in caso di morte prematura (suona familiare?). Non ci sono armi o armature, si lavora di accessori e artefatti, che forniscono bonus passivi migliorabili investendo le risorse raccolte in giro, e di statistiche, che crescono spendendo anime presso uno dei filatteri (i falò di turno) e riempiendo i nodi di uno skill tree che fa tanto Path of Exile, data la complessità e la libertà lasciata al giocatore su come gestirlo.

Una trovata interessante, che ha risvolti anche narrativi, dato che tutte le essenze sono consce della loro condizione e si lasciano spesso andare a osservazioni e battibecchi. A tal proposito, il grado di affiliazione tra i vari personaggi ne determina ulteriori bonus quando equipaggiati in slot adiacenti, sia che si tratti di un rapporto amichevole che di aperto conflitto. È un peccato dunque che da questo punto di vista il gioco non riesca a decollare, proponendo una trama scialba (il setting post-apocalittico tra fantasy e sci-fi merita, ma non ci combina molto) e attori poco interessanti, vittime tra l’altro di un doppiaggio in inglese che va dall’accettabile all’atroce, con annessi finti accenti. 

Quanto al sistema di combattimento basato sul continuo cambio di assetto, non è che ne siamo particolarmente convinti. Se Devil May Cry mi ha insegnato qualcosa, è che poter cambiare al volo stile di gioco ha un potenziale enorme, sia dal punto di vista strategico che in termini di mero spettacolo. Deathbound non è un character action, non mi aspetto contatori delle combo e sequenze aeree contro bersagli multipli (non possiamo neanche saltare, figuriamoci), ma avrebbe molto da imparare in termini di flow. Una barra del sync simboleggia il momento opportuno per sferrare un potente attacco e contemporaneamente evitare di essere colpiti, cambiando personaggi al momento opportuno, ma durante la ricarica passare da un set all’altro è veramente farraginoso.

Le situazioni in cui veniamo buttati a tradimento chiedono di alternare con regolarità le varie essenze, ma la pratica si rivela oltremodo scomoda. In primis avere il tetto massimo di stamina legato alla percentuale di salute residua è una soluzione di design a dir poco pessima (provate solo a immaginate un Dark Souls o un Monster Hunter a caso con questa caratteristica...), che rende i personaggi feriti progressivamente più inutili. In secondo luogo la quantità di salute recuperata tramite oggetti è a dir poco infima, obbligando a scartare qualunque opzione e a buttarsi sull’offensiva sfrenata (colpendo con un’essenza le altre si curano un pochino), con il rischio però di menomare anche l’ultimo baluardo che ci rimane prima dell’imminente game over (con conseguente backtracking, respawn dei nemici e la solita solfa che tanto amiamo).  

Già, perché questo è pur sempre un soulslike, e sebbene l’introduzione sia piuttosto dolce, il livello di difficoltà non ci mette troppo a decollare, proponendo contesti via via più ingiusti, nemici più coriacei e “inamovibili”, dal discutibile tracking delle mosse tra l’altro, e tratte sempre più lunghe prima del prossimo filatterio (o di una scorciatoia per ricongiungersi all’area precedente). C’è da dire poi che mostri e location non sono così interessanti da combattere ed esplorare, e l’assenza di una qualunque forma di colonna sonora non aiuta a calarsi nella parte, tranne durante i boss, circostanza in cui comunque non rapisce.

A livello tecnico Deathbound fa sfoggio di modelli poligonali piuttosto curati e ambienti ricchi di dettagli. Le prestazioni sono solide, ma c’è qualche incertezza quando vengono caricate nuove porzioni di livello, un compromesso probabilmente per non avere transizioni. Il suo punto debole però sono le animazioni, prive di peso, spesso raffazzonate e molto basilari, cosa che si ripercuote sulle collisioni, non sempre sul pezzo, e sui filmati, bruttini.