Detroit Become Human
Ci siamo commossi alla fine di Detroit Become Human. Lo ammettiamo. O meglio, sarebbe più corretto direi che ci siamo commossi alla fine della nostra storia di Detroit, perché non è detto che quella vissuta da noi, sarà la stessa che vivrete anche voi.
Inizio confuso vero? Tranquilli, con calma rimettiamo insieme tutti i pezzi.
Macchine con il cuore
Siamo nel 2038, a Detroit. La futuristica città del Michigan già teatro di un cambio epocale nella storia tecnologica dell’umanità con l’automobile, è il luogo in cui la Cyberlife con i suoi androidi sta cambiando il mondo per l’ennesima volta.
Immaginate delle macchine bio meccaniche che assomigliano in tutto e per tutto ad un essere umano, ma supportate da miglioramenti tecnologici non indifferenti. Ora pensante a come la società stia velocemente rimpiazzando moltissimi lavori che prima erano affidati agli esseri umani (muratori, commessi, netturbini, ecc.), con le macchine. Ecco, ora avete un’idea di quella che è la città americana in questo ipotetico prossimo futuro. Una metropoli che pur abbracciando il cambiamento, è vittima di tensioni socio-politiche, etiche e religiose. Persone che si riversano sulle strade a causa di un lavoro perso; predicatori che inneggiano alla pericolosità del cambiamento; attività commerciali completamente stravolte dall’arrivo di queste macchine. Come se non bastasse, ogni avanzamento tecnologico che si rispetti porta con se benefici e miglioramenti alla qualità della vita, ma anche problemi inaspettati ed incalcolabili.
Nel gioco di Cage, questi “problemi" sono chiamati devianti. Macchine che iniziano a ribellarsi alla loro programmazione comportandosi in maniera irrazionale, uscendo dagli schemi impostati ma soprattutto dimostrando di provare quelle che sembrano vere e proprie emozioni. Esattamente come noi umani.
Tre storie un solo destino
In questo contesto così frastagliato, la lente di ingrandimento si va a focalizzare su tre personaggi: Markus, Kara e Connor. Inizialmente ognuno di loro ha una mansione particolare, Markus è il badante di un vecchio pittore disabile (impersonato da Lance Henriksen); Kara la governante di una piccola casa di periferia, dove vivono un padre con problemi di droga, e una piccola bambina di nome Alice; Connor invece è il modello più avanzato realizzato dalla Cyberlife, ed il suo compito è quello di supportare la polizia di Detroit nella caccia ai devianti.
Tre storie. Tre differenti punti di vista. Tre avventure che si potrebbero (in base alle vostre scelte) mescolare tra loro in modi differenti, ma un’unica e grande visione da parte di Quantic Dream: raccontare una storia in grado di far riflettere su un tema che, prima o poi, potrebbe invadere la nostra società.
Non vogliamo dirvi altro sulla storia, e non per il banalissimo motivo dell'evitare spoiler, ma perché mai come questa volta, la nostra storia non sarebbe necessariamente la vostra storia; le scelte fatte da noi ci hanno portato a formare dei rapporti, un carattere e vedere delle scene che magari - nel vostro primo playthrough - non vedrete mai.
Ed è proprio qui che Cage, dopo quattro tentativi più o meno riusciti, coglie finalmente nel segno. Il game designer francese riesce finalmente a raccontare una storia complessa, sfaccettata, emozionante, ricca di momenti che segneranno in maniera prepotente il vostro animo.
Detroit riesce a “giocare” con i nostri sentimenti. Riesce a farci sentire la pressione di certe scelte prese in frazioni di secondo. Detroit riesce soprattutto a farci riflettere ed empatizzare con delle macchine, ponendo le nostre decisioni davanti al quesito principale di tutta l’opera: le macchine possono provare sentimenti?.
Una questione di cuore
Per raggiungere questo scopo Quantic Dream ha lavorato su una sceneggiatura finalmente bella pregna, ricca di sostanza ma soprattutto con contenuti che possono davvero modificarsi in maniera sostanziale in base alle scelte che si prendono nel corso degli eventi. Nonostante una serie di riferimenti piuttosto marcati a prodotti cinematografici come Io,Robot, Blade Runner, A.I. - Intelligenza Artificiale, e diversi rimandi alla cinematografia intimista e sentimentalista di Inarritu, Detroit trasmette la sua totale indipendenza caratteriale sull’argomento macchine/emozioni.
Tre punti di vista differenti, tre modi di raccontare una storia che questa volta prenderà realmente la forma delle nostre decisioni, mostrandoci visivamente quello che la nostra mente e il nostro cuore hanno scelto il quel momento.
Per arrivare a tutto questo Cage non sceglie una strada in grado di mentire al giocatore, ma al contrario nella totale trasparenza rinfaccia al giocatore stesso tutte le scelte prese alla fine di ogni capitolo. Questo avviene all’interno di un vero e proprio flowchart che ci mostra il nostro percorso e allo stesso tempo tutti quelli che non abbiamo sbloccato o che non abbiamo attivato per i più disparati motivi.
Ed è esattamente in questo punto che Detroit si apre ad una complessità imparagonabile a qualsiasi altro gioco di Cage. Oltre alla scelte dettate dalla nostra coscienza o dal tempismo con cui riusciremo a reagire a determinati momenti, la storia dei tre personaggi potrà essere influenzata dal rapporto che decideremo di instaurare con i personaggi non protagonisti, oppure da come reagiremo a determinati momenti in cui saremo messi sotto pressione da un countdown.
La bellezza di sapere che nel nostro primo playthrough ci siamo evitati porzioni di storia molto importanti, scoprendo addirittura di non aver conosciuto alcuni personaggi, rende giustizia a Cage e alla sua visione. Perché? Semplice: quella è la stata la nostra storia, sono le nostre decisioni, il nostro modo di trattare inconsciamente quel tema così difficile.
Anche perché diciamolo: è davvero impossibile rimanere impassibili davanti ad alcuni attimi imbastiti dal gioco. Ci si affeziona ai personaggi, si vivono sulla pelle alcuni momenti molto importanti con un pathos che raramente abbiamo vissuto all’interno di un videogioco, e ci si trova davvero a riflettere su domande che ci vengono poste e su cui restare impassibile è davvero difficile: c’è differenza tra essere vivi o accesi? Un’emozione simulata ma percepita come vera, è meno credibile di una vera emozione?.
Una volta finita la storia (nella nostra partita una quindicina di ore) potrete rigiocare i singoli capitoli modificando le scelte, oppure - cosa che vi consigliamo - rigiocare per interno una seconda partita; solamente in questo modo capirete quanto realmente tutto possa cambiare, modificarsi, plasmarsi in maniera differente.
Certo, pur trovandoci davanti a quello che è in assoluto il miglior gioco nella storia di Quantic Dream, qualche difetto rimane. In particolare, quello che noi abbiamo notato in maniera più marcata, riguarda la differente percezione di una cosa che abbiamo chiesto di far fare al giocatore. “risoluto” nella nostra testa, potrebbe avere un concetto differente rispetto quello che vediamo poi nel gioco. Questo, di fatto, è l’ultimo muro invisibile che Cage dovrà superare in futuro per rendere personale al 100% il suo gioco.
Nel frattempo però, godiamoci questo immenso capolavoro.
Esperienza o gioco?
Nell’equazione che Cage chiede di risolvere e accettare, c’è ovviamente un grosso patto a cui tutti i giocatori che voglio cimentarsi in questa avventura, devono scendere. Ancora una volta, il gameplay di Quantic Dream è un mero palliativo. Non c’è molto da giocare - nel senso lato del termine - in Detroit.
Ancora una volta il gameplay è uno strumento che sfrutta Cage per rendere ancora più protagonisti dell’azione i giocatori, facendogli compiere virtualmente e con il pad, le azioni che i tre personaggi svolgono sullo schermo. Una tattica già vista rivista in passato, e che sembra funzionare più che mai bene in questo prodotto. Certamente non mancheranno momenti più concitati, in cui scelte da prendere in frazioni di secondo e frenetici QTE, potrebbero segnare in maniera indelebile il vostro percorso narrativo.
Pur trovandoci uno step oltre i walking simulator, chi comprerà Detroit dovrà essere estremamente lucido nella sua scelta, conscio sia dell’incredibile esperienza narrativa che lo aspetta, ma anche di quello che sarà l’uso del pad rispetto a molti altri giochi.
L’occhio nel 2038
Ovviamente, sebbene le regole che governano questa esperienza sono certamente differenti da quelle di altri prodotti, l'occhio vuole sempre e comunque la sua parte. E sotto questo aspetto Detroit non delude minimamente le aspettative. Il lavoro di full motion capture che gli attori hanno svolto è perfettamente riprodotto in pixel e modellazione poligonale. Tutto questo si tramuta in una serie di personaggi estremamente credibile sia nelle movenze che nelle espressioni facciali. A questo bisogna poi aggiungere un ambiente piuttosto dettaglio e con il giusto grado di interazione.
Tutto questo è esaltato anche da una serie di inquadrature che, questa volta più che mai, sfruttando in toto quelle che siamo abituati a vedere al cinema, rendendo l’esperienza di Detroit realmente cinematografica.
Giocato su PS4 Pro il gioco inoltre sfrutta sia il 4K che l’HDR per una resa visiva davvero tra le migliori viste su PS4. A chiudere l’ottimo lavoro sul fronte tecnico ci pensa un doppiaggio in lingua italiana estremamente convincente. Ennesima prova, dopo quella di God of War, di come Sony sita finalmente investendo in questo elemento molto importante per i giocatori italiani, a maggior ragione in un titolo di questa tipologia.
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Redazione