Doom 3
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Activision organizza un appuntamento tra l'fps e l'horror. Doom 3 è un fps monocorde che punta a toccare la sfera emotiva del giocatore e, sebbene l'orrore che si svincola travalichi la necessità di un artificio narrativo dietro, nonostante scateni l'istintività del giocatore illustrando furiosi scontri a fuoco, propone un ambientazione claustrofobica per cui, per digerirla, non basta una dose di bicarbonato. Detrattori potrebbero insinuare come Id Software sia scesa a compromessi nel realizzare la sua ultima opera, volendola fresca, originale, ricca di novità e venendo a rinunciare a tutte e tre gli intenti. Malgrado l'fps moderno solchi acque nuove e tenti di navigare più al largo possibile, la verità è che, nella volontà di edificare un remake dell'ormai celebre Doom, Id abbia centrato il bersaglio inibendo eventuali critiche grazie a una struttura ludica offrente quanto dichiarato nelle proprie intenzioni. E' doveroso prendere i panni del marine, consapevoli di come questo terzo atto si affacci alla categoria senza volontà di innovare, né tanto meno di scardinare i pilastri del game design, proponendosi come semplice fps vecchia scuola.
Questa scelta va incontro a limiti penetranti, ma aderire a una simile categoria di gioco non si traduce aprioristicamente nella costituzione di un titolo qualitativamente scialbo. Nonostante l'accezione di fps old school gli calzi a pennello, Doom 3 non limita il giocatore a rigurgitare quintali di piombo contro ogni ostilità, ma esprime il proprio potenziale ludico attraverso la saggia alternanza della pila in dotazione all'arma. D3 non s'affanna nel tentativo di innovare la meccanica ludica, né tanto meno di rivoluzionare le potenzialità espressive del videogioco nel tentativo di ricreare paura e sgomento: tensione innestata reiterando artifizi attempati secondo dopo secondo; reparto audio rutilante di grida, urla, gemiti; location tenute a mollo in un bagno di sangue; l'imprevedibilità dei nemici nel saltar fuori inaspettatamente; incessante solitudine e silenzio frantumato da grida sovraumane. Appare lampante come all'appello manchi la story-board (che a onor del vero rasenta lo zero assoluto), ma è un aspetto tralasciato più o meno volutamente, seguendo la citazione platooniana secondo cui l'inferno è l'impossibilità della ragione.
Pur non raggiungendo culmini d'intensa angoscia, con una tensione che inizia a farsi patetica sul finale (avanzando ci si ambienta), per via di un impostazione ludica ripetitiva l'enfasi comincia a calare di guisa che i particolari orridi e raccapriccianti, gli schizzi di sangue nei muri, l'oscurità dilagante e le urla a lungo andare perdono, com'è ovvio che sia, la loro funzionalità di terrificare. In D3 non c'è posto per eroismi in stile Rainbow Six, né tocca istantanee di pura guerriglia, né ci pone dinnanzi a ostili governati da un'IA sopraffina. Il giocatore cammina tentennando lungo di sé, consapevole che prima o poi i propri passi suoneranno la sveglia dei mostri nascosti nell'oscurità. Grazie ad una delle regie più scriptate della storia videoludica, i nemici spuntano sempre dalla medesima posizione, venendo saggiamente teletrasportati alle nostre spalle per poi attaccarci di sorpresa. Avanzando in corridoi di due metri per due, in alcuni dei livelli più lineari mai creati a memoria d'uomo, ci si trova a guardarsi continuamente le spalle per non essere vittima di attacchi a sorpresa. Nella paradossale assenza di un'arma dotata di fascio di luce, volutamente mancante ai fini dell'edificazione dell'atmosfera, il giocatore è costretto ad alternare celermente pila ed armi, il cui fascio di luce della prima fende l'oscurità scoprendo ora la via, ora qualche demone celato, i cui proiettili delle seconde rendono esanimi mostri partoriti da una mente malata.
Si tratta di un momento fondamentale nella dialettica tra fps e ambientazione orrorifica, con cui D3 evita di scemare nella sparatoria dissennata affievolendo l'intelligibilità dell'ambiente circostante durante il posesso dell'arma, e privando di potenza di fuoco durante l'utilizzo della pila. Il diritto di sopravvivenza trova tutela grazie a un imponente armamentario bellico, discretamente bilanciato, per debellare ogni sorta di minaccia. La scrittura di D3 ha una punteggiatura semplice, soggetto-verbo-complemento, illumina l'ambiente circostante-avanza-spara tutto quel che si muove. Nonostante la completa accettazione della filosofia alla base del prodotto, D3 a lungo andare si dimostra irrimediabilmente ripetitivo, veicolando un giocatore stanco lungo scenari assuefanti in un'esperienza che, proprio a partire dalla seconda parte, comincia a dare preoccupanti segnali di noia. Nemmeno la presenza dei mostri di fine livello, di una sfida sempre alta (grazie alla scarsità di munizioni che richiedono il completo utilizzo dell'arsenale) e di nuovi nemici durante la progressione dell'avventura riescono ad smorzare quel senso di ripetitività che ineluttabilmente farà irruzione nell'UAC Research Facility. Per tacere poi di una rigiocabilità prossima allo zero.
Doom 3 nel passaggio ad X-box è dovuto scendere a qualche compromesso, ma è esemplare il lavoro svolto in fase di conversione dai Vicarious Visions (che aggiungono la campagna in cooperativa fruibile tramite Live!). Nonostante la mancanza di giochi di luce dinamici e qualche intervento di taglio e cucito per ovviare alle minori potenzialità della console Microsoft, il risultato finale è fuori parametro, in bilico tra magnificenza e sontuosità: una mole impressionante di poligoni su schermo, uno spettacolare carosello di effetti grafici e una fluidità ancorata a 30fps stabili. Si potrebbe parlare delle texture in bassa definizione, ma sarebbe come notare il rossetto sulla camicia, una macchia che denota come l'aspetto esteriore sia stato apprezzato. Alquanto. E il reparto audio, tanto per non sfigurare, abusa violentemente del Dolby 5.1 proponendo una colonna sonora tempestata di grida, gemiti ed urla straziate. La mancanza di una story board degna di nota è tralasciata dall'irrazionalità della situazione venutasi a creare, l'accusa di scarsa IA degli avversari è respinta dalla scusante della presenza di mostri, la ripetitività dell'azione di gioco è un compromesso nella volontà di realizzare un puro e semplice fps. La verità è che D3 è innegabilmente divertente sulla corta distanza, dannatamente noioso e ripetitivo sulla lunga. Questo è quanto.
Questa scelta va incontro a limiti penetranti, ma aderire a una simile categoria di gioco non si traduce aprioristicamente nella costituzione di un titolo qualitativamente scialbo. Nonostante l'accezione di fps old school gli calzi a pennello, Doom 3 non limita il giocatore a rigurgitare quintali di piombo contro ogni ostilità, ma esprime il proprio potenziale ludico attraverso la saggia alternanza della pila in dotazione all'arma. D3 non s'affanna nel tentativo di innovare la meccanica ludica, né tanto meno di rivoluzionare le potenzialità espressive del videogioco nel tentativo di ricreare paura e sgomento: tensione innestata reiterando artifizi attempati secondo dopo secondo; reparto audio rutilante di grida, urla, gemiti; location tenute a mollo in un bagno di sangue; l'imprevedibilità dei nemici nel saltar fuori inaspettatamente; incessante solitudine e silenzio frantumato da grida sovraumane. Appare lampante come all'appello manchi la story-board (che a onor del vero rasenta lo zero assoluto), ma è un aspetto tralasciato più o meno volutamente, seguendo la citazione platooniana secondo cui l'inferno è l'impossibilità della ragione.
Pur non raggiungendo culmini d'intensa angoscia, con una tensione che inizia a farsi patetica sul finale (avanzando ci si ambienta), per via di un impostazione ludica ripetitiva l'enfasi comincia a calare di guisa che i particolari orridi e raccapriccianti, gli schizzi di sangue nei muri, l'oscurità dilagante e le urla a lungo andare perdono, com'è ovvio che sia, la loro funzionalità di terrificare. In D3 non c'è posto per eroismi in stile Rainbow Six, né tocca istantanee di pura guerriglia, né ci pone dinnanzi a ostili governati da un'IA sopraffina. Il giocatore cammina tentennando lungo di sé, consapevole che prima o poi i propri passi suoneranno la sveglia dei mostri nascosti nell'oscurità. Grazie ad una delle regie più scriptate della storia videoludica, i nemici spuntano sempre dalla medesima posizione, venendo saggiamente teletrasportati alle nostre spalle per poi attaccarci di sorpresa. Avanzando in corridoi di due metri per due, in alcuni dei livelli più lineari mai creati a memoria d'uomo, ci si trova a guardarsi continuamente le spalle per non essere vittima di attacchi a sorpresa. Nella paradossale assenza di un'arma dotata di fascio di luce, volutamente mancante ai fini dell'edificazione dell'atmosfera, il giocatore è costretto ad alternare celermente pila ed armi, il cui fascio di luce della prima fende l'oscurità scoprendo ora la via, ora qualche demone celato, i cui proiettili delle seconde rendono esanimi mostri partoriti da una mente malata.
Si tratta di un momento fondamentale nella dialettica tra fps e ambientazione orrorifica, con cui D3 evita di scemare nella sparatoria dissennata affievolendo l'intelligibilità dell'ambiente circostante durante il posesso dell'arma, e privando di potenza di fuoco durante l'utilizzo della pila. Il diritto di sopravvivenza trova tutela grazie a un imponente armamentario bellico, discretamente bilanciato, per debellare ogni sorta di minaccia. La scrittura di D3 ha una punteggiatura semplice, soggetto-verbo-complemento, illumina l'ambiente circostante-avanza-spara tutto quel che si muove. Nonostante la completa accettazione della filosofia alla base del prodotto, D3 a lungo andare si dimostra irrimediabilmente ripetitivo, veicolando un giocatore stanco lungo scenari assuefanti in un'esperienza che, proprio a partire dalla seconda parte, comincia a dare preoccupanti segnali di noia. Nemmeno la presenza dei mostri di fine livello, di una sfida sempre alta (grazie alla scarsità di munizioni che richiedono il completo utilizzo dell'arsenale) e di nuovi nemici durante la progressione dell'avventura riescono ad smorzare quel senso di ripetitività che ineluttabilmente farà irruzione nell'UAC Research Facility. Per tacere poi di una rigiocabilità prossima allo zero.
Doom 3 nel passaggio ad X-box è dovuto scendere a qualche compromesso, ma è esemplare il lavoro svolto in fase di conversione dai Vicarious Visions (che aggiungono la campagna in cooperativa fruibile tramite Live!). Nonostante la mancanza di giochi di luce dinamici e qualche intervento di taglio e cucito per ovviare alle minori potenzialità della console Microsoft, il risultato finale è fuori parametro, in bilico tra magnificenza e sontuosità: una mole impressionante di poligoni su schermo, uno spettacolare carosello di effetti grafici e una fluidità ancorata a 30fps stabili. Si potrebbe parlare delle texture in bassa definizione, ma sarebbe come notare il rossetto sulla camicia, una macchia che denota come l'aspetto esteriore sia stato apprezzato. Alquanto. E il reparto audio, tanto per non sfigurare, abusa violentemente del Dolby 5.1 proponendo una colonna sonora tempestata di grida, gemiti ed urla straziate. La mancanza di una story board degna di nota è tralasciata dall'irrazionalità della situazione venutasi a creare, l'accusa di scarsa IA degli avversari è respinta dalla scusante della presenza di mostri, la ripetitività dell'azione di gioco è un compromesso nella volontà di realizzare un puro e semplice fps. La verità è che D3 è innegabilmente divertente sulla corta distanza, dannatamente noioso e ripetitivo sulla lunga. Questo è quanto.