Double Dragon Gaiden: Rise of the Dragons, conflitto di interessi - Recensione PC

La recensione di Double Dragon Gaiden: Rise of the Dragons, che cerca rilanciare e rinnovare la saga con una nuova filosofia roguelike. Sarà stata la scelta giusta?

di Jacopo Retrosi

Due settimane fa vi abbiamo parlato della nostra (breve) prova in anteprima di Double Dragon Gaiden: Rise of the Dragons. In questi giorni abbiamo approfondito l’argomento e siamo ora pronti a darvi il verdetto finale sulla nuova incarnazione del beat’em up di Secret Base e Modus Games, disponibile su PC, Nintendo Switch, PlayStation 4 e 5, Xbox One e Series X|S. 

Saziarsi con l'antipasto

A essere onesti non c’è molto da aggiungere rispetto a quanto già detto: il sistema di combattimento è preciso, puntuale, reattivo, e ancora più divertente ora che ci abbiamo preso la mano; il roster di lottatori da sbloccare è abbastanza variegato e interessante da utilizzare, ma restiamo dell’idea che Marian con i suoi attacchi a distanza e personaggi con generosi AOE come Abobo risultino di gran lunga più efficaci rispetto alla concorrenza; la pixellosa e colorata veste grafica funziona, è ben animata, ricca di dettagli e non troviamo così aberrante lo stile “chibi” (poi son gusti NdR). 

Diciamo che i 90 minuti dell’anteprima si sono rivelati più che sufficienti per avere un’idea piuttosto chiara delle potenzialità del titolo, eccetto un punto in particolare, forse il più importante: la contaminazione roguelite avrà giovato la classica formula arcade? La risposta purtroppo è no. 

Vendersi male

L’impressione è che con il passare del tempo le due anime di Double Dragon Gaiden inizino a pestarsi i piedi a vicenda, anziché supportarsi l’un l’altra: come arcade i livelli sono troppo lunghi e dal ritmo incostante, come rogue non c’è materiale sufficiente per invogliare il giocatore a ripetere l’esperienza numerose volte. 

Gli stage sono 4, ognuno composto da 3 segmenti, ciò significa che bastano 2 cicli per vedere tutti i contenuti, compresi entrambi gli epiloghi. Vero, se si punta ai trofei delle gang e a provare l’intero cast il numero di iterazioni sale almeno a 7, sebbene si stiano ripercorrendo le solite aree, con gli stessi nemici e i medesimi pattern; il senso di già visto si fa presto invadente. 


La campagna in realtà non è così longeva. Anche prendendo parte al quinto livello opzionale (poco più di un corridoio fino al boss finale) basta un’oretta per arrivare ai titoli di coda, ma la progressione è resa farraginosa dalle continue interruzioni delle orde di nemici, stanza dopo stanza, che saltano fuori a gruppetti da 2 a 5 elementi anziché sciamare sullo schermo. I continui “gauntlet” sono uno dei tratti distintivi del genere; tuttavia, la cosa si fa monotona quando si devono respingere decine di ondate ogni volta che si varca una soglia (con l'azione che si ferma tra l’altro dopo ogni combo da 3 o più eliminazioni). 

È una soluzione artificiosa, e prolunga la longevità a discapito del coinvolgimento del giocatore. Forse sarebbe stato meglio investire più risorse in percorsi alternativi o espedienti per cambiare un po' la musica, magari approfittando della natura “rogue” del titolo. E invece l’unico dettaglio procedurale è una selezione di power-up in cui investire il denaro accumulato al termine di ciascun round; migliorie secche, semplici numeri e percentuali che non modificano il parco mosse dei personaggi né il modo di approcciarsi ai combattimenti.