Dragon’s Lair 3D
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Durante la prima metà degli anni ottanta l'industria del videogioco versava in uno stato critico. Sull'orlo dell'implosione commerciale per via di un calo d'interesse nei confronti del media videoludico, per un sostanziale arresto dello sviluppo tecnologico e per la carenza di proposte effettivamente valide, la grande industria dell'intrattenimento sembrava aver imboccato una strada senza ritorno. Dragon's Lair rappresentò, per un ristretto periodo di tempo, una sorta di illusione per un mercato agonizzante e in attesa dalla svolta che potesse risollevarlo dal baratro come solo l'avvento di Nintendo, sul versante dei coin operator prima e dell'home entertainment poi, seppe fare qualche anno più tardi. Questo, molto semplicemente, perché fu un successo devastante. Basato su un hardware che sfruttava componenti comunemente reperibili sul mercato, Dragon's Lair fece di una intuizione coraggiosa un fenomeno di costume, almeno tra gli appassionati di electronic entertainment. Nonostante non si trattasse strettamente del primo lasergame, di fatto fu quello che riuscì a delineare meglio i connotati questo nuovo genere ottenendo un enorme consenso di pubblico e generando un hype ragguardevole attorno a se stesso e al mondo dei videogiochi, che durò per oltre un anno. Creato dalla neonata Cinematronics sul concept design di Rick Dyer, un ex studente del M.I.T, Dragon's Lair calava il giocatore nei panni del maldestro cavaliere Dirk the Daring, intento a salvare l'avvenente principessa Daphne dalle grinfie del dastardlyco duo formato dal perfido mago Mordroc e dal terribile drago Singe. Ma non era questo il punto.
La sua particolarità consisteva nell'utilizzare, in luogo dei soliti pixel in voga all'epoca, una grafica interamente composta da vari spezzoni di un cortometraggio animato in grado di essere combinati secondo un montaggio parzialmente dinamico ed interattivo, influenzabile dai riflessi del giocatore, costantemente chiamato a decidere del destino del povero Dirk semplicemente inclinando il joystick a destra e a sinistra o pigiando su un paio di tasti presenti sulla plancia del cabinato) in relazione ad un rapidissimo lampo di luce apparso sullo schermo in un determinato punto della sequenza animata. I risultati potevano essere due: morte, con spassosa scena in cui il nostro valoroso cavaliere veniva annientato nei modi più disparati annessa, o proseguio dell'avventura. Naturalmente dopo ogni disfatta veniva data la possibilità di affrontare nuovamente lo stesso trabocchetto, fino all'estinzione di tutte le vite a disposizione. E' facile dedurre come una buona memoria e dei riflessi accettabili fossero gli unici requisiti indispensabili per completare l'avventura, contraddistinta da una scarsa longevità e da un gameplay decisamente piatto che non tardarono a far piombare i lasergame nell'oblio, non appena smaltita la sbornia organolettica da parte dei giocatori. L'animazione, così come il character design furono affidati al Don Bluth Studios, a capo del quale v'era l'omonimo disegnatore, che nel segreto più totale sfornarono un vero e proprio capolavoro dell'animazione contemporanea, caratterizzato da una straordinaria cura del dettaglio (diversi particolari furono realizzati a mano, frame by frame), un elevatissimo numero di frame d'animazione, in grado di rivaleggiare con le controparti cinematografiche dell'epoca e da una pletora di effetti speciali capaci di ammaliare qualsiasi ragazzino abituato a sprite di 5 per 5 pixel, vissuto negli sfavillanti anni 80. Vent'anni dopo Dragonstone e Ubi Soft decidono di riportare tra noi Dragon's Lair cercando di infilarne il concept all'interno delle meccaniche tipiche dell'action platformer, ripiegando su una più moderna grafica tridimensionale ammorbidita con la famigerata tecnica del cel shading, per meglio adattarsi a quella originariamente creata dagli uomini di Don Bluth.
Ad una analisi superficiale Return to the lair si presenta al giocatore come il più classico dei giochi d'azione di ultima generazione inframezzato da salti fra piattaforme e scontri all'arma bianca con nemici improbabili disseminati per l'area di gioco. Mortificata da un level design che lascia ben poco spazio all'interpretazione, la libertà è praticamente inesistente, sfavorita ulteriormente da un ritmo dell'azione spesso concitato anche se terribilmente intermittente, irrimediabilmente sancito dalla progressione del nostro alter ego nelle varie sezioni del castello. Il giocatore è quasi costretto a muoversi su un ideale percorso dal quale non è quasi mai possibile deviare (se non per fare incetta di qualche bonus extra), incitato dai continui e quantomeno utili consigli della bella Daphne, in costante contatto con noi attraverso un singolare amuleto.