Dustborn, la recensione di una distopia fuori controllo

La nostra recensione di Dustborn, un'avventura narrativa on the road che perde completamente la sua strada.

Dustborn la recensione di una distopia fuori controllo

Ci sono un’afroamericana, un’indiana, un non binario e un ispanico. Sembra l’inizio di una barzelletta, invece sono le premesse di Dustborn, l’avventura narrativa sviluppata dallo studio norvegese Red Thread Games già autore di Dreamfall Chapters e Draugen. Nei panni della protagonista Pax dovremo attraversare gli Stati Uniti da costa a costa per superare il confine e raggiungere il Canada. Perché? È complicato da spiegare e il gioco stesso non fa nulla per motivarci davvero a compiere un’impresa di questo tipo, in una realtà distopica del 2030 che gli sviluppatori non si sono dimostrati in grado di proporre né gestire a modo, lasciando il giocatore in un brodo di informazioni senza capo né coda, moralismo immotivato, personaggi privi del minimo carisma o anche solo di una costruzione accattivante, situazioni slegate tra loro e una generale frustrazione dovuta al non sapere cosa si sta facendo o il motivo per cui doverlo fare.

Dustborn, la recensione di una distopia fuori controllo

Già da questa premessa si può capire come Dustborn sia un progetto quantomeno confuso, incapace di trovare una propria direzione o di stabilire una narrazione coesa tanto a carattere generale quanto nelle sue singole parti. È un gioco estremamente di parte, fazioso nella visione che offre e incapace di sfumare la propria parzialità per dare vita a un universo che, forse, avrebbe potuto dire più di quanto fa – ossia, nulla. Non c’è niente di positivamente memorabile in quest’esperienza, se non magari il procione vestito con un maglioncino rosa che si incontra a un certo punto dell’avventura: molte cose rimangono impresse, in questo impasto narrativo, nessuna però come dovrebbe. I personaggi sono dei token ambulanti, caratterizzati non dalla loro personalità ma da informazioni che hanno il sapore di una casellina spuntata da un elenco; il worldbuilding è inesistente e pur essendo una distopia mischia alcuni concetti prettamente “nostri”, della realtà in cui viviamo noi; la costruzione dei comprimari, dei nemici o di qualsiasi altro personaggio coinvolto per più di due minuti con il gruppo non è pervenuta, poiché tutti rispondono all’incasellamento deciso per loro senza possibilità di qualche piccola sfumatura.

Proviamo però a fare diversi passi indietro e costruire il percorso di Dustborn, partendo dalla storia. Siamo nei panni di Pax, donna afroamericana in viaggio lungo l’America (perché definirli Stati Uniti non è più possibile) per trovare salvezza in Canada; salvezza da un regime fascista (sic!) sotto forma di Repubblica, formatosi non si sa quando, comandato da un tale presidente Ward e in cui, insomma, pare che l’ordine sia stabilito con il pugno di ferro. La distopia di questa realtà va indietro fino al 1964, quando J. F. Kennedy sopravvive al tentativo di assassinio e da quel momento… non si sa. Come dicevo, Dustborn non fa niente di niente per mettere in piedi un contesto socio-politico-geografico in grado di aiutare il giocatore a capire cos’è successo nel passato, come abbia influenzato il presente e quali sono le pedine in gioco. Sappiamo solo che ci sono i fascisti, i fascisti 2.0 nella forma dei Puritani, qualcos’altro di poco rilevante nel mezzo e noi, i buoni. Vengono citati continuamente nomi di eventi e/o persone, che peraltro cambiano a seconda del luogo in cui ci si trova, ai quali tuttavia nella quasi totalità non viene offerta spiegazione: sono informazioni che subiamo ma non possiamo in alcun modo contestualizzare.

Dustborn, la recensione di una distopia fuori controllo

Una narrazione sfilacciata, inutilmente moralista e priva di mordente

Tornando a Pax e al suo gruppo, sono in fuga dopo aver trafugato qualcosa di importante ai Puritani, dati che questo gruppo tecnologicamente molto avanzato rivuole a ogni costo. Non sono soltanto loro a rappresentare un problema, però, perché anche la Giustizia (l’organo istituito dalla Repubblica d’America per mantenere l’ordine) va evitata a ogni costo: Pax, l’indiana Sai e il non binario Noam sono infatti Anomali, mentre Theo è un semplice essere umano. Gli Anomali, chiamati anche Devianti o Strillatori o quant’altro in base a chi ne parla, sono persone che a seguito del Broadcast di trent’anni prima si sono ritrovate investite del potere della parola – se vi state chiedendo cosa sia il Broadcast, sappiate che non otterrete mai una risposta chiara.

Ciascun Anomalo utilizza le parole in modo diverso ed è in grado di plasmare chi o cosa lo circonda secondo la propria volontà. Il potere di Pax è coercitivo e fa leva sulle emozioni negative delle persone, o comunque sul far loro del male obbligandole a volte anche a compiere azioni che non vorrebbero. Sai può trasformare il proprio corpo in pietra ed è per questo che rappresenta un po’ l’ariete del gruppo. Noam può letteralmente manipolare le persone, spingendole a credere alla realtà che presenta loro davanti. Insomma, Sai esclusa non siamo proprio di fronte a poteri positivi ma queste persone non l’hanno scelto: il Broadcast le ha rese così, trasformandole in bersagli viventi per chiunque consideri gli Anomali un pericolo. Il furto ai danni dei Puritani serve dunque a questo: comprarsi un biglietto di sola andata per Nuova Scozia, dove non saranno perseguitati e potranno riprendere in mano le rispettive vite.

Dustborn, la recensione di una distopia fuori controllo

Tuttavia, a cominciare dalla stessa Pax, ci sono segreti che non possono essere rivelati e metteranno a dura prova il clima all’interno del gruppo (seppur bilanciato dalle nostre scelte), a maggior ragione quando sempre più persone entreranno a farne parte. È difficile fare un discorso omogeneo senza rischiare di incappare in spoiler ma il problema principale che ho riscontrato in Dustborn è proprio l’idea di fare delle parole un’arma: in un’America dove, pare, il linguaggio è sotto il controllo tanto della Giustizia quanto dei Puritani – ma non ci sono prove che confermino quantomeno le colpe della Repubblica d’America in tal senso – la soluzione di Nuova Scozia sarebbe quella di sfruttare lo strano linguaggio parlato dagli Anomali per far assaggiare a queste persone la loro stessa medicina. Liberare, in un certo senso, la lingua e farne un’arma per plasmare una nuova realtà.

Non penso serva andare troppo a fondo per farvi capire quanto estremamente pericoloso sia questo approccio, nel messaggio che vuole far passare, a maggior ragione se non adeguatamente supportato dalla narrativa come in questo caso. La risposta a una supposta violenza è, né più né meno, un’altra violenza: essendo però un qualcosa gestito dai cosiddetti buoni, allora va bene. Quando parlavo di faziosità mi riferivo soprattutto a questo, nell’offrire una propria (e non dei personaggi, perché non sono abbastanza sviluppati) visione del mondo e dell’ordine che dovrebbe vigere facendola passare per giusta.

Dustborn, la recensione di una distopia fuori controllo

Se c’è un aspetto che personalmente disprezzo in una narrazione, non importa che passi da un libro, da un film, da una serie TV o come in questo caso da un videogioco, è dirmi come ma soprattutto cosa devo pensare: spingere di continuo in una direzione con il messaggio, neppure troppo velato, che la strada intrapresa è giusta. Sono io, fruitore, a dover sviluppare un mio pensiero su quello che sto vivendo e non tu, dall’altra parte, a impormelo: una storia deve darmi tutti i mezzi affinché io sia in grado di maturare le mie considerazioni, a prescindere da dove queste possano andare.

Dustborn invece si limita a puntare continuamente il dito su Giustizia e Puritani come il nemico, derubricando i primi a fascisti/nazisti e i secondi a un livello non troppo dissimile, senza però costruirmi attorno un contesto. Mi viene detto che sono tirannici e colpevoli eppure di prove in tal senso non ne vengono mostrate: certo, sono spietati verso gli Anomali ma come dicevo all’inizio serve un contesto socio-politico-geografico perché io possa capire appieno cosa succede. Non posso fidarmi della parola di persone che, peraltro, mi sono fin da subito presentate come criminali – con l’etichetta di anarchico, tuttavia, il che li porta automaticamente dalla parte giusta di una storia inesistente.

Non pago, il gioco infila moralismi ovunque, tra discorsi di identità di genere, battute sull’imperialismo genocida del tutto gratuite, concetti di giustizia e repressione discutibili e quant’altro; il tutto condito da tentativi di affrontare temi come sessualità, fede, religione, democrazia, razzismo, eccetera ma senza davvero esserne in grado (cosa già accaduta in Dreamfall Chapters). Monologhi di pessima qualità e situazioni costruite ad hoc senza alcun intreccio logico con la trama centrale, assurdi quanto i personaggi che costituiscono questa narrazione: tutti quelli che si uniranno al gruppo hanno almeno un elemento di diversità, sia esso etnico, fisico o mentale, tanto da far pensare a un tratto se non ci si stia portando dietro una sorta di moderna corte dei miracoli.

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In tutto questo bailamme narrativo non aiuta il fatto che i dialoghi non possano essere velocizzati, rendendo di fatto inutile la velocità di lettura di chi gioca. Dobbiamo ascoltare la recitazione dall’inizio alla fine, persino quando (spesso) manca di coinvolgimento e pathos. In un gioco dove  il testo parlato la fa da padrone, un’opzione del genere sarebbe la prima a cui pensare perché per quanto si possa apprezzare il doppiaggio alla lunga diventa normale voler tagliare corto.

Ciliegina sulla torta di questa narrazione deragliata è la localizzazione: ci sono spesso e volentieri strafalcioni, parole o frasi non presenti nell’originale inglese, traduzioni completamente errate, al punto che non è davvero chiaro se sia stata utilizzata un’IA (certi errori non li farebbe nemmeno Google Traduttore) o se sia manchevole chiunque se ne sia occupato. Ci sono anche situazioni in cui è l’inglese stesso a mettere in difficoltà la localizzazione, tutto per mettere in piedi l’ennesimo siparietto moralista sull’uso della lingua e di come riferirsi a una persona: questo porta a traduzioni distorte per far passare una critica che già in originale non aveva senso di esistere. Sono casi estremamente sporadici, per fortuna, tuttavia riflesso quasi sardonico di come un gioco concentrato proprio sul linguaggio non riesca a gestirlo a dovere.

Un comparto ludico troppo debole per sopperire ai difetti narrativi

Dal punto di vista ludico, Dustborn è altrettanto scialbo ma, almeno, non irritante come la controparte narrativa. Quando non siamo impegnati in tediose discussioni, possiamo esplorare gli ambienti che caratterizzano ciascuno dei dieci capitoli: sono aree più o meno grandi, in cui non c’è molto da fare al di là del cercare gli Echi oppure parti meccaniche con cui potenziare la mazza da baseball di Pax. I primi sono… segnali, potremmo definirli, distorti che infettano la mente delle persone facendole sprofondare nella paranoia e nella paura: utilizzando un dispositivo da gioco chiamato ME-EM, Pax può localizzarli e assorbirli all’interno dello stesso, per poi utilizzarli nella creazione di nuove parole una volta accumulata la giusta quantità. A volte assorbire uno di questi Echi serve a proseguire nella storia, molto spesso tuttavia sono da cercare nei dintorni sfruttando il sistema di localizzazione, che però rallenta i movimenti di Pax, oppure esplorando in giro finché una vibrazione non ci avvisa della loro vicina presenza.

Dustborn, la recensione di una distopia fuori controllo

Mazza da baseball e potenziamenti implicano combattere ed è questo che ogni tanto capita in Dustborn: si menano le mani contro centauri (intesi come motociclisti), poliziotti fascistoidi e Puritani, in degli intermezzi d’azione messi lì giusto per non rendere il gioco più lento e noioso di quanto già non sia – oltre che per allungare la fedina penale del nostro gruppo. All’atto pratico, questi scontri alternano l’utilizzo della mazza da baseball a quello della Vox (così chiamato in generale il potere degli Anomali) di Pax per avvantaggiarci in un modo o nell’altro sul nemico; ci sono poi parole alle quali può far seguito un follow-up da parte di uno dei nostri compagni, se presente in quel momento. Le parole, per essere utilizzate, richiedono di prendere a mazzate chi ci si para davanti fino a riempire l’indicatore e si accompagnano anche alla Provocazione, un attacco speciale con un proprio tempo di ricarica e che dopo una serie di QTE permette di sferrare un colpo violento sui nemici.

Nel complesso, è un sistema di combattimento piuttosto grezzo, impreciso nel prendere di mira i nemici persino quando li si vuole puntare (il gioco tende spesso a evidenziare un nemico diverso da quello verso cui si è rivolti) e con un feeling dei colpi non pervenuto. Si può impostare una modalità facile, normale o difficile ma quest’ultima non è particolarmente impegnativa o divertente, perciò non vedo la ragione per complicarsi la vita. Gli stessi potenziamenti non influenzano in particolar modo il flusso degli scontri, per cui averli o meno risulta la stessa cosa. Ho giusto trovato carino il fatto che Pax sottoponga a continuo “sfottò” i nemici, per caricare se stessa e confondere loro, ma è una dinamica un po’ sprecata perché nel caos della lotta è complicato stare dietro ai loro discorsi o leggere i sottotitoli.

Dustborn, la recensione di una distopia fuori controllo

Come può un gruppo così eterogeneo e, diciamocelo, sospetto viaggiare da una costa all’altra dell’America senza attirare l’attenzione? Al di là di una rete di connessioni che permette loro, in modo piuttosto confuso, di avere permessi e documenti falsi, la storia di copertura stabilità è quella di un rock band in tournée: ciò significa che ci saranno momenti stabiliti in cui esibirsi e altri in cui, a piacere, fare pratica o scrivere nuove canzoni. Ciascuna di queste azioni implica un minigioco sotto forma di rhythm game, con canzoni bene o male discrete. Il punto, ancora una volta, è l’utilità di questa copertura nell’economia di una trama sfilacciata, che non ha bene idea di dove andare: sembra essere il filo conduttore delle tappe forzate del gruppo, tanto che mancare uno di questi appuntamenti significa destare sospetti nelle autorità – voglio dire, non possono esistere gli imprevisti?

Senza contare che i Dustborn (il nome scelto per la band) non suonano in posti particolarmente rinomati o con chissà quale pubblico: sono alla stregua di una band nascente che suona nei piccoli locali, niente che possa davvero sollevare perplessità in caso di ritardo sulla tabella di marcia. Di nuovo la sensazione è quella di informazioni, e capitoli interi, buttate lì senza approfondimento o nesso logico con le precedenti: sembra di vivere micro storie slegate tra loro e che per il rotto della cuffia trovano una parvenza di connessione.

Dustborn, la recensione di una distopia fuori controllo

L’unico aspetto che si salva è quello grafico. L’estetica del fumetto ha sempre il proprio fascino, sebbene il character design lasci abbastanza a desiderare e le ambientazioni non coinvolgano più di tanto, ma ancora una volta c’è un neo: le animazioni. Quando interagiscono tra loro, i personaggi sono pressoché inespressivi, incapaci di trasmettere le sensazioni del momento e anche nella gestualità in sé c’è una generale piattezza. Qui è dove sarebbe dovuto intervenire il doppiaggio tuttavia, come già citato in precedenza, manca di pathos – ed è percettibile nelle situazioni costruite per essere soprattutto drammatiche. Non c’è trasporto, emozione, nulla… e questo si riflette anche sul giocatore, impedendogli di empatizzare con contesti teoricamente tragici (anche qui si potrebbe aprire una parentesi sulla messa in scena degli stessi ma rientra tutto nella grossa critica alla narrazione). Insomma, anche l’unico aspetto positivo di Dustborn paga il pegno di una realizzazione effettiva manchevole e poco coinvolgente.

 

Versione Testata: PS5

4

Voto

Redazione

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Dustborn, la recensione di una distopia fuori controllo

Dustborn è un gioco in cui è pressoché impossibile trovare un pregio. Il gioco impiega quindici e più ore per raccontarsi e farlo malissimo, riempiendosi la bocca di moralismi senza mai mettere in piedi una trama interessante o anche solo logica, perché la maggior parte se non tutte le domande che sorgono rimane senza risposta. Alla fine del viaggio, se così possiamo definirlo, si resta senza niente in mano se non frustrazione per aver investito tempo in un’esperienza che non ci ripaga in alcun modo, nemmeno nel dare conclusione al supposto conflitto che domina lo sfondo di un “on the road” piatto tanto nella narrativa quanto negli aspetti prettamente ludici.

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