Into the Dead: Our Darkest Days – Il survival 2D che reinventa This War of Mine con gli zombie - La Recensione
Permadeath spietato, Texas anni ’80 e base da difendere: ecco perché vale la pena tenerlo d’occhio.

Texas, estate 1980: Walton City è ormai un labirinto di vetrine infrante, sirene strozzate e corpi redivivi che spingono contro le barricate. In questo contesto, Into the Dead: Our Darkest Days – ora in Early Access su Steam a 25 € – fonde la disperazione gestionale di This War of Mine con l’esplorazione affamata di State of Decay, ma in 2D side-scrolling in tempo reale dove ogni secondo si gioca in prima persona. Niente militari, niente supersoldati: al comando c’è un manipolo di cittadini qualunque, ciascuno con tratti, traumi e bisogni psicologici che possono mandare all’aria un’intera run.
Sulla carta potrebbe sembrare “l’ennesimo gioco di zombie”, ma l’accostamento sarebbe ingeneroso: qui non ci sono parkour sfrenati alla Dying Light né ondate arcade stile Left 4 Dead. Il titolo di PikPok punta piuttosto alla stessa nicchia “survival cerebrale” di Project Zomboid o Cataclysm: Dark Days Ahead, ma con un taglio più accessibile e una forte identità anni ’80, tutta colori sbiaditi, pantaloncini corti e country rock alla radio. Il risultato è un ibrido che cerca di ricordarci – senza moralismi – che la sopravvivenza non è solo sparare alla testa di un non-morto, ma mantenere vivo il gruppo, giorno dopo giorno.
Gameplay, permadeath e gestione del rifugio: il vero nemico è il tempo
Into the Dead: Our Darkest Days adotta una gestione del tempo in slot orari continui, simile a quella vista in This War of Mine, ma con una maggiore libertà d’azione: non ci sono giornate divise rigidamente tra giorno e notte, né fasi separate tra base e missioni. Qui sei sempre operativo, e sta a te decidere chi dorme, chi cucina, chi ripara o costruisce, in qualsiasi momento. Puoi far riposare un personaggio alle prime luci dell’alba o assegnargli un lavoro mentre gli altri recuperano energie: tutto dipende dalla pianificazione e dalla gestione delle priorità, in un ecosistema dove fame, stanchezza e morale possono degenerare in fretta se sottovalutati.
Quando il gruppo cresce e i letti iniziano a scarseggiare, mantenere l’equilibrio tra riposo, attività e convivenza diventa cruciale. Ogni sopravvissuto ha le proprie attitudini: c’è chi è più efficiente nella costruzione, chi cucina meglio, chi sopporta più stress e chi ha bisogno di dormire più spesso. Ignorare queste dinamiche compromette la produttività della base e apre la strada a crisi nervose, burn-out o inefficienze che, nel tempo, possono costare caro. Il rifugio accoglie, ma non perdona: sovraffollarlo senza organizzazione porta rapidamente al caos.
Quando le scorte iniziano a esaurirsi, bisogna uscire. Le spedizioni si svolgono in livelli 2D esplorabili in tempo reale, dove si controlla un singolo personaggio in ambientazioni claustrofobiche come appartamenti abbandonati, supermercati, stazioni di servizio. L’obiettivo principale è sempre lo stesso: reperire materiali essenziali per il mantenimento della base – cibo, legno, medicinali, strumenti da lavoro. Gli indizi narrativi che sbloccano nuove direttrici di fuga compaiono solo in alcune aree, come ricompensa per chi esplora a fondo, ma non sono mai garantiti.
Fuori dal rifugio, le minacce non mancano. Gli zombie non hanno un’intelligenza sofisticata, ma compensano con la loro imprevedibilità: reagiscono a rumori improvvisi, si muovono in branco e possono accerchiare facilmente il giocatore, soprattutto se quest’ultimo sbaglia tempi e posizionamento. Le armi da mischia si consumano rapidamente, le munizioni sono rare, e ogni scontro è un rischio concreto. Per questo il gioco incentiva un approccio stealth, dove la pazienza e l’osservazione contano più della forza bruta. Un passo falso, un rumore fuori posto, e l’intera sortita può concludersi nel sangue.
Ed è qui che entra in gioco il permadeath, meccanica che dà un peso concreto a ogni decisione. Quando un sopravvissuto muore, è per sempre. E con lui se ne vanno anche i suoi tratti unici: magari era l’unico in grado di costruire barricate velocemente o di resistere senza cibo per più ore. Ma non si perde solo efficienza: si perde equilibrio emotivo. I compagni reagiscono al lutto, rallentano, si abbattono, e se non si corre ai ripari il rischio è quello di una spirale negativa da cui è difficile uscire.
Nel corso delle esplorazioni, è possibile incontrare nuovi superstiti. Accoglierli può sembrare una benedizione, ma comporta sfide non trascurabili. Più persone significa più manodopera, certo, ma anche più bocche da sfamare, turni di sonno da gestire, spazi occupati. Senza abbastanza letti, la stanchezza si accumula e l’efficienza crolla. Bisogna quindi valutare con attenzione chi far entrare e quando, considerando non solo le abilità ma anche l’impatto sul fragile equilibrio del gruppo.
Infine, c’è il rifugio stesso. Le barricate cedono col tempo, e gli attacchi nemici si fanno sempre più intensi. Restare troppo a lungo nello stesso posto significa rischiare l’assalto finale. Ma spostarsi comporta inevitabilmente la perdita di parte dell’inventario, e trovare un luogo abbastanza sicuro non è mai scontato. Serve una strategia, una visione d’insieme, e la capacità di capire quando è il momento giusto per mollare tutto e ricominciare da un’altra parte.
Atmosfere E Visuals: L’Estetica Del Collasso di Into the Dead: Our Darkest Days
Sul piano visivo, Into the Dead: Our Darkest Days adotta uno stile grafico ibrido che mescola con intelligenza scenari 2D e profondità tridimensionali, creando un mondo visivamente coerente e immersivo senza strafare. Il risultato è un comparto estetico sobrio ma funzionale, capace di restituire una costante sensazione di vulnerabilità: luci fredde che tagliano gli interni, riflessi sul pavimento bagnato, e un uso intelligente dell’illuminazione per guidare lo sguardo del giocatore e aumentare la tensione, soprattutto di notte.
L’elemento che colpisce di più è la cura con cui viene gestita l’atmosfera delle singole location: ogni edificio esplorabile – che sia un appartamento, un negozio o una stazione di servizio – è credibile, sporco, logoro. L’arredamento è sempre coerente con l’ambientazione anni ’80, mentre la palette cromatica si mantiene su toni desaturati, con lampi di colore che emergono solo quando succede qualcosa di veramente pericoloso o significativo, come un’esplosione o un’ondata improvvisa di zombie.
Tecnicamente, il gioco gira su Unity ma riesce comunque a distinguersi grazie a un’ottima fluidità nelle animazioni, specialmente durante le sequenze di esplorazione e combattimento. Certo, non mancano piccoli glitch e momenti di blurriness (soprattutto nei movimenti rapidi o durante alcune transizioni ambientali), ma si tratta di imperfezioni minori che non compromettono mai la leggibilità della scena.
Il lavoro sulla luce è probabilmente uno degli aspetti più riusciti del gioco: l’effetto della torcia nelle aree buie, il bagliore improvviso di un lampo o il flash di uno sparo non solo aggiungono tensione, ma riescono a comunicare paura con strumenti minimali. È un approccio che non cerca la spettacolarità, ma la coerenza visiva con il tono dell’esperienza, e in questo riesce a colpire nel segno.
In conclusione, Our Darkest Days non punta sul fotorealismo né sull’impatto estetico immediato, ma costruisce un’identità visiva solida e riconoscibile, al servizio di un’esperienza survival dove l’ambiente non è solo sfondo, ma parte integrante della tensione e della narrazione.