Manhunt

di Redazione Gamesurf

Uno show televisivo catapulta il giocatore in arene da cui l'imperativo è scappare, aggrappati alle sole esortazioni di un regista squilibrato e al nostro attaccamento alla vita. La creatività e l'originalità del concept sembrano esplodere nell'atmosfera di violenza e ferocia magistralmente ricreata, di cui Manhunt offre un affresco ben delineato, per poi implodere in meccaniche di gioco pluriabusate che la Rockstar implementa di maniera. Ben celato dietro la trama, un impianto ludico dove diventa prassi sistematica quella di eliminare altri personaggi - comandati dalla cpu - gestiti da routine di intelligenza che vedono come primo obiettivo quello di farci la pelle, e come secondo quello di dimostrarci come qualche perfezionamento sarebbe stato doveroso in tal senso.

La mutevolezza delle situazioni e la molteplicità di varianti per superare particolari passaggi, trovano radice comune nel tentativo di Starkweather (il regista) di buttarci nelle fauci del leone e hanno tutte lo stesso denominatore: permanenza in vita. James Earl Cash, il protagonista, è istituzionalmente deputato a fronteggiare orde di nemici, previa sopravvivenza, previa garanzia di spettacolo nei confronti del pubblico: noi. Sempre lui, seguendo incondizionatamente gli ordini del suo "mentore", è chiamato a portare a termine le missioni per il piacere del pubblico, con la sola scelta di come svolgere la procedura. Da qui la vocazione di Manhunt a cogliere i molteplici aspetti del genere stealth, adottando un approccio ragionato, o gli impulsivi richiami del genere action, adottando un approccio avventato e caldamente sconsigliato una volta constatata l'ostilità dei nemici. Logica conseguenza è la natura dualistica del gameplay, dove la concezione di gioco action si dissolve in nome della scarsa praticabilità.

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Ma l'adozione della filosofia stealth nel prosieguo dell'avventura, non è dettata da un livello di difficoltà troppo ostico della stessa, quanto da una dinamica dei combattimenti che, meritevole di affinamento, suggerisce al novello giocatore di evitare come la peste gli scontri diretti. La manifestazione delle superficialità del sistema di controllo ci viene subito data dal tutt'altro che vasto carnet di mosse effettuabili, dove affrontare un nemico a viso aperto si traduce in uno scambio di pacche sulla faccia che ci vedranno, la maggior parte delle volta, avere la peggio. Meglio, quindi, affidarsi alle poche armi a disposizione. Per cui mazze, vetri affilati, armi da fuoco e quant'altro sono ben accetti senza però modificare la dinamica degli scontri, che rimane invariata con la sua carica di scambio di pacche sulla faccia, di cui si farebbe volentieri a meno.

La situazione porta a emulare la silenziosità del miglior Sam Fisher, avvantaggiandosi del fattore sorpresa, e allo studio del level design, per cogliere appieno le potenzialità degli stage. Altrettanto vero è, però, che vista la peculiare situazione in cui andremo ad operare, le soluzioni in nostro possesso per portare a termine i compiti assegnati dal "regista" saranno veramente minime. Una situazione, questa, in parte dettata dal fatto che James Earl Cash non ha certo le doti fisiche e tecniche dei vari Sam Fisher o Solid Snake, e dovrà affrontare le situazioni affidandosi alla sua naturale propensione ad uccidere (non dimentichiamo che il nostro protagonista è un galeotto condannato a morte). In parte, invece, dettata da alcune scelte di game design piuttosto opinabili e, a nostro giudizio, discutibili.

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