Manhunt

di Redazione Gamesurf

Andando controtendenza rispetto a quanto visto negli ultimi tempi nelle produzioni in campo stealth (Splinter Cell e Thief in testa), James non potrà in alcun modo creare situazioni di gioco che lo possano avvantaggiare nei confronti dei suoi nemici. Esempio lampante arriva dal sistema di illuminazione utilizzato, che prevede fonti di luce statiche, che non permettono al giocatore di "creare" attorno a sé il buio e sfruttare quindi la situazione a proprio favore. Ne consegue che Manhunt offre un gameplay dove il blando avvicendarsi delle azioni da compiere ,che si somigliano le une con le altre, diventano usanze che si trasformano in consuetudini e portano il giocatore a toccare la soglia della noia, del quale un VG (leggasi videogioco) dovrebbe esserne nemico, non malcelato facchino.

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Ad aggravare la situazione interviene una gestione della telecamera non perfetta che lascia adito a notevoli problemi di natura visiva, con la costante di ritrovarsi di fronte al nemico senza poter agire al 100% delle proprie capacità. Non è questo il peggio: Manhunt potrebbe offrire molto di più, ma la facciata da snuff movie cela tinte da stealth game essenziali, dove il tutto si riduce al non entrare nel perimetro visivo dei nemici e non provocare rumore. L'alba degli stealth game. Riprendere questa filosofia di gioco, rendendola irrispettosa dei tempi e meno brillante dinnanzi a svariati altri prodotti (dal cui confronto il titolo Rockstar uscirebbe con le ossa rotte), porta speditamente a pensare come Manhunt sia stato sopravvalutato grazie alla propria atmosfera. Ma nel videogioco il sangue e la violenza non destano più stupore, e tutt'altro che assuefatti dinnanzi a un brutale spettacolo, è possibile intravedere spiragli di superficialità tra una sequenza di morte e l'altra. Anche il potere immersivo del titolo, cade miseramente di fronte alla banalità di un gameplay ripetitivo e scontato, dove nemmeno la crescita dell'armamentario riesce a colmare il vuoto del blando avvicendarsi di livelli fotocopia.

Da quest'insieme di considerazioni si manifesta, con ovvietà, come al binomio gioco\trama sia data preminenza a quest'ultima, che in parte riesce a nascondere le numerose imperfezioni di un gameplay ridotto all'osso o, almeno, a farci chiudere un occhio di fronte alla loro energumena presenza. Non è poco. Il fascino del titolo Rockstar risiede in un atmosfera di delirio dal quale il giocatore acquista un senso di oppressione, dovuto, purtroppo (che pessimo contributo), anche dalle restrizioni di un impianto ludico che purtroppo (ripetizione non casuale) lascia spazio a poche soluzioni: siamo ben lontani dalla libertà di GTA. Il servilismo del gameplay dinnanzi all'atmosfera magistralmente ricreata dagli sviluppatori, porta a spendere due parole per sottolinearne i pregi, partendo da un reparto tecnico che più che stupire per magnificenza, lo fa in quanto a ispirazione e, dimostrandosi perfettamente a tema, riesce a calare il giocatore nella parte.

Niente texture o costruzioni poligonali in grado di destare stupore, anzi, la non troppa dissomiglianza con la versione PS2 (superata in virtù di una maggiore pulizia visiva e una framerate praticamente raddoppiato) è un attestato di come Xbox possa fare di meglio, molto meglio. Rimane però il senso di degrado in cui è immortalata Carcer City, i filmati in simil pellicola 8mm delle varie esecuzioni e la minuziosità dei particolari che contribuiscono al senso d'inquietudine che attanaglia il giocatore. Per tacere di un reparto sonoro che, avvalendosi pienamente del Dolby Digital, offre un coinvolgimento non indifferente. Troppo poco però per farci guardare Manhunt con occhi diversi da quelli di chi è conscio di ritrovarsi tra le mani il classico esempio del "poteva essere, ma non è stato".

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