Master Detective Archives: Rain Code, crimini nella pioggia – Recensione Switch
La recensione della nuova avventura investigativa dagli autori di Danganronpa, disponibile in esclusiva Nintendo Switch
Nel titolo Too Kyo Games e Spike Chunsoft vestiremo i panni di Yuma Kokohead (il primo ma non certo l’ultimo dei cognomi strani che caratterizzano il cast), un aspirante detective dell’OMD, un’organizzazione di investigatori che opera su scala mondiale, tutti dotati di poteri paranormali chiamati “Forte” che li aiutano nelle indagini, come rilevare forme di vita nelle vicinanze, vedere una scena del crimine nel passato attraverso gli occhi dei testimoni, oppure trasformarsi completamente in un altro individuo.
Il nostro Yuma non sembra avere un’abilità tutta sua, tuttavia poco prima che il giocatore potesse prendere il controllo ha stretto un patto con Shinigami, la “spalla comica” dell’avventura, il Monokuma di turno, una dea della morte che in cambio dei suoi ricordi gli concede l’accesso esclusivo al “Labirinto dei misteri”, una sorta di dungeon extra-dimensionale formato dai casi irrisolti, in cui scoprire la verità usando le prove accumulate a mo' di chiavi.
Lo troviamo infatti frastornato e disorientato in uno sgabuzzino, con solo un biglietto in tasca a guidarlo verso la sua missione: risolvere l’enigma dietro Kanai Ward, una metropoli isolata dal resto mondo e governata con il pugno di ferro dalle forze dell’ordine locale, i “Pacificatori”, dove il crimine e la corruzione dilaga, è sempre buio e piove ininterrottamente da anni (praticamente Gotham City in chiave anime).
A prima vista non sembra neanche un posticino così male: i sobborghi dove alloggia gran parte della popolazione, pieni di vita ma anche decadenti, malandati, con luci al neon a costellare strade e vicoli; i quartieri ricchi, dove infrastrutture all’avanguardia e design tra l’armonioso e il kitsch la fanno da padrone, freddi e distaccati come l'élite che vi risiede; il tutto si amalgama sotto la pioggia incessante, donando all’ambientazione un’aura misteriosa, quasi malinconica, caratterizzata da luci soffuse, riflessi colorati che si mescolano sulla strada bagnata, nebbie e vapori che nascondono i passanti, già di loro avvolti dalla testa ai piedi da cappotti e impermeabili.
Una scelta stilistica intrigante, azzeccatissima al contesto e che camuffa piuttosto bene i limiti tecnici di Switch. Ma le vie di Kanai Ward non sono che l’anticamera dei delitti che il gioco ci tirerà contro, e per quelli dovremo muoverci all’asciutto delle scene del delitto, vuoi in campanili diroccati, accademie private o psichedeliche realtà alternative.
Master Detective Archives: Rain Code è prima di tutto un’avventura dialogica. La componente deduttiva non ha fondamento su cui reggersi se le personalità che vi gravitano intorno non sono interessanti o peggio non sono in grado di imbastire un canovaccio adeguato alla ricostruzione del mistero e la sua conseguente risoluzione.
Gli scrittori non hanno lesinato sul fornire a protagonisti e comparse tratti esagerati, ai limiti del disagio. Ciò li rende di sicuro memorabili e facilmente riconoscibili, specie considerando il poco screen time concesso a molti di loro (la gente cade come mosche qui NdR), ma spesso tendono a risultare pedanti quando dietro la loro eccentricità non pare esserci null’altro, allungando il brodo per ricordare allo spettatore quanto quel particolare dettaglio sia predominante (e pure l’unico) del loro essere.
Ci sono però momenti in cui il copione decide di rimanere sul pezzo, e allora le storie che compongono i vari capitoli si fanno parecchio interessanti. I casi per la maggiore sanno di già visto, almeno per chi mastica il genere, ma sono narrati con metodo e passione, introducendo attori e circostanze in modo che il giocatore abbia tutte le informazioni necessarie per giungere di sua iniziativa al colpevole; congetture e voli pindarici non mancano, ma una volta che ogni tassello del puzzle è sul tavolo non si può non apprezzare la bontà nella cura riposta in questo aspetto della narrazione.
I dialoghi sono inoltre impreziositi da frequenti filmati in-game per presentare nuovi personaggi oppure dare risalto alle parti salienti, con sequenze ben realizzate e anche piuttosto lunghe, e persino le sequenze più statiche vantano animazioni dedicate e un sacco di ritratti 2D (soprattutto Shinigami, ne avrà una ventina solo lei in forma di spettro). Non solo, la stragrande maggioranza delle conversazioni sono doppiate in inglese e giapponese (ottimi entrambi), e il tutto è stato adattato in un eccellente italiano, una rarità in produzioni simili.
Per qualche motivo la qualità generale cola a picco durante le “missioni secondarie”, che anziché approfondire cast e mondo di gioco si sprecano in fetch quest prive di mordente. Il gioco non è lunghissimo (tra le 20 e le 30 ore a seconda dei vostri ritmi), ma non è certo questo il “padding” di cui aveva bisogno. Perlomeno sono facoltative e ininfluenti sul resto della trama, quindi non gli daremo troppo peso.
Una piccola parentesi sui due protagonisti per chiudere il paragrafo storia: come coppia onnipresente funzionano, hanno personalità che contrastano bene e non si impongono mai sul comprimario o testimone di turno, permettendogli di “brillare”, nel bene o nel male. Ritengo tuttavia che far sì che Shinigami sia udibile solo da Yuma rovina potenziali scenette spassose; i suoi insulti e commenti di cattivo gusto si perdono infatti nell’aere, e le reazioni dell’altro (la cui passività dovrebbe diventare caso di studio) in genere sono di solito abbastanza fiacche.
Ogni capitolo si apre con un breve interludio, in cui girare per la città e accettare incarichi minori (trascurabili, come accennato prima). Ma il morto è sempre dietro l’angolo, e a quel punto si entra nel vivo dell’azione. La risoluzione di un mistero si scinde fondamentalmente in due fasi: indagini e conquista del labirinto.
Si comincia con l'analisi della scena del crimine, passando in rassegna punti d’interesse, interrogando i presenti e sfruttando il Forte del collega dell’OMD che ci accompagnerà per la durata di quel particolare caso. Una volta raccolte tutte le prove e giunti alla “resa dei conti” finale, il tempo si ferma e Shinigami ci catapulta nel Labirinto dei misteri per incastrare il colpevole e chiudere la faccenda.
Questo magico luogo senza capo né coda, caratterizzato da architetture cangianti e colori acidi (orientamento psycho pop se ho ben capito NdR), è la manifestazione dell’enigma che stiamo cercando di risolvere, e in quanto tale dovremo completare una serie di prove di abilità e/o ragionamento per arrivare alla verità, come respingere gli assalti di chi ha ostacolato le indagini o dell’assassino, agghindati per l’occasione in stile boss di Persona, dedurre correttamente il corso degli eventi in un QTE, o indovinare la parola segreta dietro alcune macchinazioni con una variante “osé” del gioco del pirata nel barile (di cui non accetto la scarsa varietà di costumi da bagno per Shinigami; se dobbiamo fare fanservice, facciamolo come si deve NdR).
Apprezziamo la volontà di dare alle battute conclusive di ogni investigazione un tono più “action”, ma è anche vero che si perde molto del divertimento nel risalire al bandolo della matassa con le proprie forze. Dovendo controbattere alle affermazioni dell’avversario mentre si schivano fendenti, ricordare circostanze passate nell’arco di pochi secondi, o più in generale lavorare di riflessi anziché di materia grigia, spesso non si ha modo di riflettere, e qualche frase si perde per strada.
Ecco perché la “regia” si prende la briga di “imboccare” il giocatore tirandogli addosso la soluzione; intendiamoci, i casi in sé non sono mai troppo complessi, e la narrazione spesso si interrompe per assicurarsi che pure chi dormiva fino ad ora restasse al passo, ma tende a rendere il tutto un po' troppo ovvio. E non aiuta la quantità irrisoria di salute persa in caso di errore. Sapevate poi che c’è un intero sistema GDR con level-up e acquisizione di skill con il solo scopo di semplificare ulteriormente i minigiochi? Davvero non ne capiamo il motivo...
È come se Master Detective Archives: Rain Code in origine fosse una visual novel, e solo dopo il gameplay è stato innestato per movimentare la situazione (cosa effettivamente vera per il primo Danganronpa; forse non hanno imparato la lezione...). In quest’ottica ha senso che il gioco in qualche modo spinga il lettore a darsi una mossa, a mandare avanti la baracca, ma così facendo l’intero processo diventa meccanico, quasi monotono, dovendo ripetere le solite attività a oltranza.
Shinigami a un certo punto cita il classico detto “il viaggio è più importante della meta”, peccato che nel titolo Spike Chunsoftil suddetto viaggio sia assai precipitoso. C’è fretta, fretta di arrivare alla fine, di fare bordello nel labirinto, di scoprire la verità, non importa le conseguenze (che, ironicamente, è anche uno dei temi centrali dell’arco di Yuma).
Sì, abbiamo sempre e comunque a nostra disposizione tutti gli strumenti per risolvere il caso, l’essenziale per capire l’inghippo e fregare il malfattore di turno; tuttavia, non avremmo disdegnato un paio di dettagli extra sulla vittima, sugli indiziati (con cui alle volte manco parliamo direttamente), su movente e modus operandi, ma anche informazioni non necessariamente legate all’omicidio, per dargli quel tocco più “personale”.
Così però si ha quell’aria da storia breve alla Sherlock Holmes, diretta, concisa, ideale nel contesto (in fondo, non siamo che forestieri in una città dove crimini efferati sono all'ordine del giorno). L’unica vera remora l’abbiamo nel modo in cui viene gestito il Labirinto dei misteri, una sorta di deus ex machina che tira fuori d’impaccio i protagonisti e chiude troppo sbrigativamente il sipario (manca giusto Shinigami esordire con un “il colpevole è stato trovato, tutti a casa”). Stile, quello non manca mai, con alcune citazioni d’autore (e non) che non ti aspetti nel 2023.
Sul versante tecnico, abbiamo già elogiato presentazione e atmosfere, ma vogliamo rincarare la dose applaudendo l’eccellente direzione artistica, tra effetti sgargianti, forti contrasti e un’ottima cura della messa in scena. Anche Switch si comporta bene, perdendo giusto qualche colpo nei luoghi più affollati (e il gioco non lesina su piccoli dettagli e riflessi, con cui la console Nintendo va poco d’accordo); lunghi e frequenti i caricamenti, neo di un quadro altrimenti davvero niente male.
Esattamente come gli scrittori, anche la colonna sonora è ad opera del compositore dei vari Danganronpa, e ciò è ravvisabile in ogni singola traccia, mantenendo comunque carattere da vendere e accompagnando alla perfezione l’umore ballerino del titolo, tra mistero e follia.