Project Zero 3
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Project Zero (o Fatal Frame che dir si voglia) punta molto sulle sensazioni provate da chi gioca e sull'atmosfera messa a disposizione. Confida in una formula che alterna enigmi di facile risoluzione a combattimenti "particolari" e si serve di una struttura di fondo che, almeno per quanto concerne i movimenti dei protagonisti, lo designa fra gli iscritti alla "vecchia" scuola del survival horror.
La macchina fotografica, con cui i personaggi gestiti via pad sono armati, è la prima delle prove a sostegno sia della particolarità del battle system sia dello sgomento di cui la serie è foriera.
C'è, da parte del fruitore, un'invadente sensazione di debolezza, e non certo perché il codice sia avaro di oggetti curativi o perché il game over sia un avvenimento così frequente (molto dipende anche, a tal proposito, dalla difficoltà selezionata).
In effetti, si ha spesso l'ossessione di essere costantemente seguiti (il che è vero specie quando la telecamera tende ad avvicinarsi alle spalle dei personaggi).
Un motivo in più per essere indotti con estrema, irrequieta, naturalezza a credersi alla mercé di questi luoghi infestati, di questa Villa del Sonno al cui interno si è controvoglia ospitati (l'edificio in questione è un maniero antico ed oramai decaduto, edificato secondo stile nipponico ed imbrattato di un rimorso che quasi striscia lungo le pareti).
E laddove sua maestà Resident Evil 4 ha mostrato le sue debolezze horror sbilanciandosi troppo con un arsenale alla Rambo e con un affluenza eccessiva di nemici (ambedue elementi che causano nocumento non tanto alla difficoltà quanto semmai alla tensione che così viene smorzata eccessivamente), Project Zero 3 si palesa, in questo aspetto, complessivamente più ingegnoso, poiché catapulta il fruitore in un mondo angosciante, conteso dall'incubo e dalla veglia.
Magari i momenti vissuti da svegli, alla lunga, perdono il loro fascino iniziale, sebbene vada detto come, girovagando per casa Kurosawa, alcuni avvenimenti per quanto semplici (strane bambole cui crescono i capelli, visioni, ombre vaganti ed altro ancora) cerchino di contrastare lo scemare del ritmo causato dal fattore investigazione (sviluppare foto scattate da dormienti, rivolgersi a Miku, leggere lettere e preziosi documenti).
Ciononostante, il terzo capitolo della serie in questione inciampa seriamente in un solo punto: nell'insistere, come accennato, su una locomozione oramai desueta.
Voltare direzione e correre sono mansioni qui macchinose le quali, peraltro, non vanno d'accordo con l'imprevidibilità dei nemici che al contrario volteggiano per aria, si scagliano contro le loro vittime, vanno a rilento per poi apparire alle spalle.
E le inquadrature fisse, sì suggestive (merito anche di una direzione artistica encomiabile), spesso impediscono di evitare un fendente che semplicemente non si è potuto vedere.
Nel complesso, tuttavia, è questo un titolo convincente, se non altro per la varietà che impongono tre personaggi (con tanto di approcci all'azione ed all'esplorazione diversificati) e rispettive Macchine Obscure in dotazione (da upgradare separatamente con la consueta spesa di punti e con gli immancabili utensili dispensati dal gioco). Merito anche, ovviamente, di quanto si è detto nelle righe precedenti.
Per quanto concerne infine la trama, aldilà di quanto si è scritto nelle didascalie di questa pagina, sarebbe sgradevole anticipare qualcuno dei tratti che realmente la contraddistinguono.
Non manca il linguaggio formulare già usato in Crimson Butterfly e nel primissimo episodio: ossia tematiche folcloristiche miste ad altre più psicologiche ed intime (quali ad esempio il dolore provato nel separarsi dai cari).
Certamente il modo con cui il racconto è imbastito è degno di riconoscimenti, ma non solo per qualità prettamente narrative.
Perché un videogioco si giudica da ben altre componenti, ed esso vince, a maggior ragione se di matrice avventurosa, quando riesce nel far immergere il fruitore in una situazione di fantasia (rompete l'incantesimo della "credulità" -ossia il credersi parte, in quel momento, di quel mondo- ed il gioco è spacciato).
La macchina fotografica, con cui i personaggi gestiti via pad sono armati, è la prima delle prove a sostegno sia della particolarità del battle system sia dello sgomento di cui la serie è foriera.
C'è, da parte del fruitore, un'invadente sensazione di debolezza, e non certo perché il codice sia avaro di oggetti curativi o perché il game over sia un avvenimento così frequente (molto dipende anche, a tal proposito, dalla difficoltà selezionata).
In effetti, si ha spesso l'ossessione di essere costantemente seguiti (il che è vero specie quando la telecamera tende ad avvicinarsi alle spalle dei personaggi).
Un motivo in più per essere indotti con estrema, irrequieta, naturalezza a credersi alla mercé di questi luoghi infestati, di questa Villa del Sonno al cui interno si è controvoglia ospitati (l'edificio in questione è un maniero antico ed oramai decaduto, edificato secondo stile nipponico ed imbrattato di un rimorso che quasi striscia lungo le pareti).
E laddove sua maestà Resident Evil 4 ha mostrato le sue debolezze horror sbilanciandosi troppo con un arsenale alla Rambo e con un affluenza eccessiva di nemici (ambedue elementi che causano nocumento non tanto alla difficoltà quanto semmai alla tensione che così viene smorzata eccessivamente), Project Zero 3 si palesa, in questo aspetto, complessivamente più ingegnoso, poiché catapulta il fruitore in un mondo angosciante, conteso dall'incubo e dalla veglia.
Magari i momenti vissuti da svegli, alla lunga, perdono il loro fascino iniziale, sebbene vada detto come, girovagando per casa Kurosawa, alcuni avvenimenti per quanto semplici (strane bambole cui crescono i capelli, visioni, ombre vaganti ed altro ancora) cerchino di contrastare lo scemare del ritmo causato dal fattore investigazione (sviluppare foto scattate da dormienti, rivolgersi a Miku, leggere lettere e preziosi documenti).
Ciononostante, il terzo capitolo della serie in questione inciampa seriamente in un solo punto: nell'insistere, come accennato, su una locomozione oramai desueta.
Voltare direzione e correre sono mansioni qui macchinose le quali, peraltro, non vanno d'accordo con l'imprevidibilità dei nemici che al contrario volteggiano per aria, si scagliano contro le loro vittime, vanno a rilento per poi apparire alle spalle.
E le inquadrature fisse, sì suggestive (merito anche di una direzione artistica encomiabile), spesso impediscono di evitare un fendente che semplicemente non si è potuto vedere.
Nel complesso, tuttavia, è questo un titolo convincente, se non altro per la varietà che impongono tre personaggi (con tanto di approcci all'azione ed all'esplorazione diversificati) e rispettive Macchine Obscure in dotazione (da upgradare separatamente con la consueta spesa di punti e con gli immancabili utensili dispensati dal gioco). Merito anche, ovviamente, di quanto si è detto nelle righe precedenti.
Per quanto concerne infine la trama, aldilà di quanto si è scritto nelle didascalie di questa pagina, sarebbe sgradevole anticipare qualcuno dei tratti che realmente la contraddistinguono.
Non manca il linguaggio formulare già usato in Crimson Butterfly e nel primissimo episodio: ossia tematiche folcloristiche miste ad altre più psicologiche ed intime (quali ad esempio il dolore provato nel separarsi dai cari).
Certamente il modo con cui il racconto è imbastito è degno di riconoscimenti, ma non solo per qualità prettamente narrative.
Perché un videogioco si giudica da ben altre componenti, ed esso vince, a maggior ragione se di matrice avventurosa, quando riesce nel far immergere il fruitore in una situazione di fantasia (rompete l'incantesimo della "credulità" -ossia il credersi parte, in quel momento, di quel mondo- ed il gioco è spacciato).