Recensione Return to Monkey Island
Ultimamente sentiamo spesso parlare di operazione nostalgia. Sia che si tratti di cinema, e Tom Cruise ce l’ha dimostrato proprio recentemente, o che si tratti di videogiochi, questo genere di modus operandi racchiude al suo interno moltissimi meccanismi di engagement, che non sempre finiscono per appassionare la community a cui dovrebbero fare riferimento.
Il rischio è spesso alto, inutile negarlo, ma cosa succede quando l’operazione funziona? Un po’ quello che è accaduto con Return to Monkey Island, un titolo attesissimo dalla fanbase di riferimento (soprattutto quella brizzolata, che ancora maneggiava floppy disk ai tempi delle caverne) nonché un sequel che ha aspettato più di trent’anni, da quella che fu la vendetta di Lechuck, per farsi rivedere sugli scaffali.
La domanda che pervaderà il pensiero di molti sarà però la stessa: vale la pena riprendere da dove eravamo rimasti? Soprattutto in un periodo dove le avventure grafiche hanno perso il fascino di un tempo? Potremmo dirvi subito di sì, ma lasciateci anche il tempo di spiegare.
EHY ATTENTO! C’E’ UNA SCIMMIA A TRE TESTE
Non è facile riprendere un franchise a distanza di così tanto tempo, soprattutto lasciandolo al contempo legato alla formula videoludica che ne aveva decretato il successo. I due capolavori The Secret of Monkey Island e Monkey Island 2: Lechuck’s Revenge sono rimasti titoli impressi nella storia videoludica, due capisaldi che hanno istruito le generazioni di oggi come il Manuale delle Giovani Marmotte, tanto è vero che uno dei meriti da attribuirgli è quello di averci insegnato la differenza tra premere e tirare
Scherzi a parte, i due titoli LucasArts hanno accompagnato e appassionato tantissimi videogiocatori per molteplici motivi: come dimenticare la piacevolissima pixel art che componeva ogni scenario, o animava ogni personaggio, e come dimenticare la squisita scelta dei dialoghi, umoristici e allo stesso tempo interessanti. Fino a oggi molti di noi si sono chiesti quale fosse il vero segreto di Monkey Island, o perché il Big Whoop fosse alla fine quello che trovammo in Lechuck’s Revenge (niente spoiler!), ed è forse per questo che il duo Gilbert/Grossman si è trovato nella posizione di voler intraprendere un nuovo viaggio in compagnia di Guybrush Threepwood.
Return to Monkey Island è a tutti gli effetti proprio questo: ripartendo dal finale del secondo capitolo, il simpatico protagonista che per una vita ha sognato di essere un temibile pirata oggi ha la possibilità di farlo, ripartendo per una frizzante avventura in compagnia dei suoi compagni di un tempo, tutti presi a mantenere quella caratterizzazione che ne aveva consacrato il successo già una trentina di anni fa.
A cambiare non dovevano essere Lechuck, Elaine, Otis, o qualunque altro personaggio del gioco. A cambiare doveva essere la formula espositiva scelta per raccontare la storia: ecco quindi che a trasformarsi è il genere delle avventure grafiche, che in questo caso perde quella “pesante” interfaccia conosciuta agli albori, con tutti quei verbi in sovraimpressione, per lasciare spazio alla scena, e inserisce una funzione di doppiaggio in lingua anglosassone pronta a enfatizzare la narrazione, aiutando così tutti quei giocatori indispettiti dal dover leggere troppe linee di dialogo a schermo.
E la pixel art? No, quella manca totalmente, sebbene venga sostituita da una grafica cartonata davvero ben realizzata, animata con cura in ogni frangente così da garantire anche un discreto feedback convincente durante i dialoghi. A prescindere dai gusti, la scelta compiuta nello sviluppare il gioco si è rivelata assolutamente vincente, ed è stata a nostro avviso capace di “svecchiare” questo franchise con tutto il rispetto meritato.
OCCHIO ALLE NUOVE GENERAZIONI
Non so voi, ma in un periodo piuttosto lontano della mia paternità mi sono trovato nella posizione di far giocare mio figlio al secondo capitolo di Monkey Island, utilizzando per semplificazione la versione remake uscita qualche tempo fa. Il feedback fu piuttosto negativo: c’è troppo da leggere, ma qui cosa dovrebbe succedere, ma perché questo oggetto non posso usarlo come voglio io, etc. etc.
Insomma, in certi frangenti sembrava addirittura che fosse il gioco a essere limitante, come se prendere una manciata di patatine, inserirle in una scatola, usare successivamente un legnetto e una corda per trasformarla in una trappola per topi fosse troppo poco immediato per la fantasiosa mentre del nostro giovane interlocutore.
Per venire forse incontro a questa tipologia di giocatori, gli autori hanno pensato bene di inserire delle piccole feature che non finiscono per snaturare minimamente il gioco. Basti pensare alla difficoltà scelta all’inizio, che separa una modalità di gameplay più basica e ricca di suggerimenti da una più hardcore, dove i giocatori si trovano praticamente soli di fronte al gioco (e non possono nemmeno evidenziare gli oggetti su schermo con il tasto apposito).
La scelta di inserire un libro pronto a concedere qualche suggerimento al giocatore sottoforma di testo è stata oltremodo intelligente, ed è un bene che esista il succitato tasto dedicato alla sottolineatura degli oggetti su schermo, perché garantisce accessibilità a una rosa di giocatori molto ampia. La differenza sulle modalità la si evince soprattutto dalla natura degli enigmi, che in quella difficile marcano la necessità di ricercare più indizi o di compiere più passaggi al fine di risolverli.
Sappiate che questa si rivelerà la parte più divertente del gioco, accompagnata anche dal ritrovamento di alcune interessanti carte sparse per il mondo di gioco, ognuna contenente una domanda a risposta chiusa pensata per sfidare la conoscenza sulla lore del franchise. È chiaro che la longevità del gioco è identificata dal gioco in sé e per sé, che potrete finire in una decina di ore a seconda della vostra abilità, ma potrete diluirne le tempistiche qualora siate interessanti a completare tutti gli achievements dedicati (tra cui spicca anche uno in cui dovrete fare una speedrun al fine di sbloccarlo).