Rime

di Simone Rampazzi

Esistono giochi e giochi.

Chiamateli Walk Simulator, o  racconti emozionali se volete. Fatto sta che negli ultimi anni un nuovo genere ludico ha preso il posto accanto a quelli più tradizionali, imponendosi quasi unicamente per la capacità di coinvolgere emotivamente il giocatore di turno. E sono proprio le emozioni l'ingrediente mancante nella formula di tanti, troppi giochi tecnicamente sublimi, forse, ma piatti nel tracciato che porta dritto al cuore. Ce lo ha dimostrato Fumito Ueda con The Last Guardian, ma anche altre case di sviluppo indipendenti sono riuscite nell’arduo compito di intrattenerci senza troppi stratagemmi, sfruttando una narrazione incalzante accompagnata da un gameplay squisitamente ridotto all’osso. Ricorderete certamente Firewatch, Layers of Fear oppure il nostrano The Town of Light, tutti titoli che hanno saputo costruire una storia dove l’unico collante, a tenere in piedi la baracca, era unicamente l’immedesimazione.

Parlando di Rime le caratteristiche sopracitate viaggiano autonomamente senza nemmeno citarle, complice una struttura di gioco che vuole sfruttare una componente puzzle-game perfetta per sviscerare, passo dopo passo, la vicenda legata al protagonista.

Un ragazzo di età imprecisata naufraga su un’isola misteriosa, a cavallo tra un mondo fiabesco, trainato da scene oniriche e surreali, e un’isola dell’antica Grecia, dove l’unico filo conduttore sembra essere tenuto in piedi dalla semplice voglia della scoperta. A tutti gli effetti non esiste alcun background che ci mette a conoscenza delle circostanze che ci hanno condotto qui, motivo per cui il giocatore si trova ad esplorare l’isola alla ricerca degli indizi necessari a rispondere ai dilemmi più immediati: chi siamo e dove siamo diretti? Una risposta, volenti o nolenti, riusciremo ad ottenerla solamente seguendo le molliche di pane stese a terra per noi.

Poesia in movimento

Nel corso dell’avventura, tra sezioni platform e fasi esplorative, vi accorgerete presto che non esistono dialoghi e/o alcun tipo di iscrizione che possa istruirvi sui fatti che si stanno avvicendando. Al contrario, gli unici veicoli sfruttati dagli sviluppatori per comunicare con noi sono le immagini e la colonna sonora, elementi che da soli riescono a creare una fortissima empatia con il fragile ed innocente protagonista.

Senza essere in grado di rispondere a nessuna delle cinque domande presenti nella cosiddetta “regola delle 5 W”, ci si trova ben presto ad intervallare fasi esplorative, ad altre platform, insieme ad una serie di enigmi ambientali da approcciare con la giusta prospettiva.

Esplorando quelle che sembrano essere rovine di popoli antichi come il tempo, il protagonista incontra ben presto una serie di ostacoli a frapporsi tra lui e l’obbiettivo, spesso rappresentati da monoliti o meccanismi che possono essere attivati mediante l’uso della voce del ragazzo. Alcuni di questi aprono semplicemente delle porte, altri permettono di attivare dispositivi più o meno complessi al fine di sbloccare il cammino, ma ogni elemento inserito nel contesto cerca di ritagliarsi il suo spazio su questo atollo fantastico, senza mai permettere al giocatore di sottovalutare la dimensione dello scenario e, appunto, l’angolo di prospettiva da cui è possibile inquadrarlo.

Oltre infatti alla normale linea guida utile a finire il gioco esistono anche dei piccoli manufatti, etichettabili come segreti, che servono a fornire ulteriori tasselli, utili per comprendere meglio il background del ragazzo che stiamo interpretando. Trattandosi di un action game in terza persona, il nostro alter-ego può esplorare l’ambientazione saltando ed arrampicandosi per le alture dedicate, trovandosi anche qualche volta a combattere strane creature alate semplicemente nascondendosi dal loro campo d’azione.

Rime inserisce l’essenziale nella formula legata al gameplay, non si lascia intimorire dal doversi mostrare stratificato oltre le aspettative, ma al contrario cerca in tutti i modi di rispettare il giocatore grazie all’immedesimazione e all’empatia mostrata verso il protagonista, conducendoci ad un finale inaspettato che spiazza lasciando letteralmente il segno. D’altronde, proprio riferendoci all’immedesimazione, il titolo rinuncia a qualsivoglia tipologia di interfaccia su schermo per rendere il compito più immediato e naturale.

Come una metafora

L’opera di Tequila Works sfrutta a dovere il comparto grafico utilizzato per l’occasione, cercando di riprodurre su schermo un’ambientazione ricca di particolari, che colpisce grazie alla sua semplicità. L’insieme di colori pastellati, accompagnati dal tratto morbido delle bianche strutture che sembrano richiamare paesaggi soleggiati dell’antica Grecia, alternano la purezza del giorno ai segreti della notte, in un intervallarsi onirico che lascia realmente senza fiato.

La bontà dell’immagine viene accompagnata dalla colonna sonora perfetta per l’occasione, capace di richiamare emozioni nascoste nel nostro io interiore con una semplicità quasi disarmante. Il viaggio come metafora del tempo e della crescita, dove tentazioni e figure oscure vengono alternate da guide meccaniche e tenere volpi gentili, che ci seguiranno durante il viaggio per indicarci il cammino da seguire.