Splinter Cell: Double Agent
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C' è una sottile linea di mezzeria che divide il bene e il male. E Sam Fisher la conosce fin troppo bene. Una figlia morta, un colpevole invisibile e la linea diventa impalpabile. E allora accettare missioni che ti portano vicine alla morte non sono più cosi inammissibili e nemmeno tanto importa il risultato finale perché tanto si vince sempre. Ed è proprio da qui che parte Double Agent, con il nostro agente NSA colto da improvvisa sfiga cronica, pronto a vendere l'anima al diavolo pur di salvare il posteriore (ancora una volta) ad una nazione che non si pone troppi scrupoli ad infiltrarlo direttamente tra le linee nemiche, anche se queste portano il ridicolo appellativo di "John Brown's Army". Ed eccolo, quindi, il nostro nuovo Sam, integerrimo per tre lunghi episodi, diventare un poco di buono e mettere a disposizione del nemico i propri servigi. Bene e male? Solo un punto di vista, d'ora in avanti, dal momento che Sam mirerà a non scontentare nessuno.
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Tralasciando il lato puramente estetico del titolo, di cui parleremo più avanti, è impossibile non notare come in Double Agent poco o nulla è cambiato nel "succo" del discorso. Qualche mossa in più, qualche nuovo simpatico intermezzo, qualche modifica all'hud principale ma sostanzialmente niente di veramente nuovo. Non che sia un male, intendiamoci, dal momento che il lavoro di affinamento sul gameplay di Splinter Cell segue la (furba, ma giusta) politica dei piccoli passi. Quello che cambia è la "doppia" natura delle missioni. Chi conosce "Alias" si troverà praticamente a casa. Per mantenere inalterata la fiducia dell'NSA e dei JBA, Sam dovrà da perfetto equilibrista camminare su quella linea di mezzeria di cui abbiamo parlato poc'anzi, rispondendo al vecchio adagio "Un colpo alla botte e una al cerchio". Esempio pratico: "Fuga dal penitenziario di Ellsworth". Il JBA ci chiede di aiutare tale Jamie Washington ad evadere dalla prigione, l'NSA di non uccidere nessuna guardia. Un compromesso accettabile il cui svolgimento è lasciato a noi, novelli Michael Scofield.
Ma, comprovata la volontà di Sam di non tatuarsi addosso l'intera mappa del carcere, non possiamo fare altro che cercare la fuga attraverso le ottime ambientazioni messe sul campo dai designers Ubisoft. Ottime tanto per la mera qualità visiva degli ambienti, quanto per la libertà s'interpretazione lasciata al giocatore, capace di gestire diverse vie di fuga e studiare svariate soluzioni per risolvere il problema di turno. Il comportamento in gioco andrà direttamente condizionare il grado di fiducia accordataci dalle due fazioni. Scatenare la rivolta carceraria, inutile ai fini della nostra fuga, potrebbe far infuriare il JBA, per cui potremo vedere il particolare segnalatore su schermo decrescere di conseguenza, facendo invece aumentare di conseguenza quello dell'NSA. Un esperimento sicuramente interessante che però avrebbe necessitato di un approfondimento maggiore, dal momento che le conseguenze delle nostre decisioni saranno quantomeno impalpabili. La direttrice delle vicende che coinvolgeranno Sam, sarà praticamente unica, senza alcun bivio narrativo di sorta. Solo all'ultima missione, una volta tirate le somme del nostro atteggiamento durante tutto l'arco del gioco accederemo ad uno dei quattro finali differenti pensati da Ubisoft. Troppo poco davvero.
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Ne consegue che, così come anticipato ad inizio articolo, ci ritroveremo a giocare il solito, vecchio, Splinter Cell, con Sam impegnato ad agire nell'ombra, ancora ricco di nuovi gadget tecnologici che lo aiuteranno nei momenti topici della missione. Come sempre l'eliminazione sistematica degli avversari è solo un'opzione nel ventaglio di possibilità date al nostro agente, soprattutto perché Ubisoft ha lavorato discretamente bene sull'intelligenza artificiale avversaria, dotando i nostri oppositori di un cono visuale più ampio e un comportamento in gioco sicuramente più vario e consono. Certo, i difetti "storici" ci sono sempre e capiterà più di una volta di fronte a comportamenti illogici dei nostri nemici, facilitando fin troppo il nostro compito, ma mentre in precedenza era praticamente questa la regola, ora rappresentano la classica eccezione.
Confermandosi come la software house che, al momento, meglio ha saputo interpretare il passaggio alla nuova generazione di console, Ubisoft ha donato a questo nuovo episodio di Splinter Cell un comparto tecnico realmente ineccepibile. Un motore grafico roccioso, capace di muovere scene dettagliate e un quadro grafico pulito e texturizzato a dovere è solo una parte dell'ottimo lavoro svolto. Apprezzabile, soprattutto sugli schermi ad alta definizione, il lavoro maniacale svolto sui modelli poligonali dei protagonisti, di cui si possono notare anche i minimi dettagli. Le cicatrici sul cranio di Sam, il sudore e l'espressività del volto sono tutti fattori che aiutano a ricreare un ambiente di gioco credibile e, di conseguenza, facilitano il giocatore a calarsi nei panni dell'infallibile agente NSA. Peccato invece per qualche errore grossolano (clipping, oggetti sospesi a mezz'aria), che infastidiscono ma non intaccano l'ottimo quadro generale. Discreto il sonoro che affianca alle voci storiche dei personaggi di contorno (Lambert, nella fattispecie), anche un nuovo doppiatore per Sam Fisher, che non fa rimpiangere l'ottimo Luca Ward (in alcuni frangenti le voci si somigliano moltissimo).
Chiude il discorso il multiplayer, rivisto e corretto rispetto al precedente episodio. Rispetto a Chaos Theory il rapporto spie-mercenari è molto più equilibrato. Prima le certezze. Uno in più: da due contro due lo scontro diventa tre contro tre. Sempre spie contro mercenari, sempre visuale in terza per i primi e in soggettiva per i secondi. Adesso le novità. Aggiornamenti nell'arsenale, possibilità di accelerazione, di effettuare salti, compresa l'impiego di un drone-spia. Se l'asso nella manica della spia è il silenzio e l'incapacità del mercenario di rilevare suoni, questa volta il mercenario dispone di un visore per individuare i movimenti ravvicinati della spia. Sprovvista dello shocker-gun, la spia può disabilitare "hackerare" ogni dispositivo e sono dotate di un'agilità ancora più accentuata attivando mosse speciali premendo un solo pulsante sul controller. Infine anche alla spia è concessa la chance di uccidere in modo stealth il mercenario, ma a mani nude. Purtroppo Ubisoft ha preparato il necrologio per il multiplayer cooperativo che tanto "chaos" aveva creato tra i giocatori. Ma non ci sarà comunque tempo per versare lacrime di fronte ad un notevole arricchimento delle modalità competitive.
Tralasciando il lato puramente estetico del titolo, di cui parleremo più avanti, è impossibile non notare come in Double Agent poco o nulla è cambiato nel "succo" del discorso. Qualche mossa in più, qualche nuovo simpatico intermezzo, qualche modifica all'hud principale ma sostanzialmente niente di veramente nuovo. Non che sia un male, intendiamoci, dal momento che il lavoro di affinamento sul gameplay di Splinter Cell segue la (furba, ma giusta) politica dei piccoli passi. Quello che cambia è la "doppia" natura delle missioni. Chi conosce "Alias" si troverà praticamente a casa. Per mantenere inalterata la fiducia dell'NSA e dei JBA, Sam dovrà da perfetto equilibrista camminare su quella linea di mezzeria di cui abbiamo parlato poc'anzi, rispondendo al vecchio adagio "Un colpo alla botte e una al cerchio". Esempio pratico: "Fuga dal penitenziario di Ellsworth". Il JBA ci chiede di aiutare tale Jamie Washington ad evadere dalla prigione, l'NSA di non uccidere nessuna guardia. Un compromesso accettabile il cui svolgimento è lasciato a noi, novelli Michael Scofield.
Ma, comprovata la volontà di Sam di non tatuarsi addosso l'intera mappa del carcere, non possiamo fare altro che cercare la fuga attraverso le ottime ambientazioni messe sul campo dai designers Ubisoft. Ottime tanto per la mera qualità visiva degli ambienti, quanto per la libertà s'interpretazione lasciata al giocatore, capace di gestire diverse vie di fuga e studiare svariate soluzioni per risolvere il problema di turno. Il comportamento in gioco andrà direttamente condizionare il grado di fiducia accordataci dalle due fazioni. Scatenare la rivolta carceraria, inutile ai fini della nostra fuga, potrebbe far infuriare il JBA, per cui potremo vedere il particolare segnalatore su schermo decrescere di conseguenza, facendo invece aumentare di conseguenza quello dell'NSA. Un esperimento sicuramente interessante che però avrebbe necessitato di un approfondimento maggiore, dal momento che le conseguenze delle nostre decisioni saranno quantomeno impalpabili. La direttrice delle vicende che coinvolgeranno Sam, sarà praticamente unica, senza alcun bivio narrativo di sorta. Solo all'ultima missione, una volta tirate le somme del nostro atteggiamento durante tutto l'arco del gioco accederemo ad uno dei quattro finali differenti pensati da Ubisoft. Troppo poco davvero.
Ne consegue che, così come anticipato ad inizio articolo, ci ritroveremo a giocare il solito, vecchio, Splinter Cell, con Sam impegnato ad agire nell'ombra, ancora ricco di nuovi gadget tecnologici che lo aiuteranno nei momenti topici della missione. Come sempre l'eliminazione sistematica degli avversari è solo un'opzione nel ventaglio di possibilità date al nostro agente, soprattutto perché Ubisoft ha lavorato discretamente bene sull'intelligenza artificiale avversaria, dotando i nostri oppositori di un cono visuale più ampio e un comportamento in gioco sicuramente più vario e consono. Certo, i difetti "storici" ci sono sempre e capiterà più di una volta di fronte a comportamenti illogici dei nostri nemici, facilitando fin troppo il nostro compito, ma mentre in precedenza era praticamente questa la regola, ora rappresentano la classica eccezione.
Confermandosi come la software house che, al momento, meglio ha saputo interpretare il passaggio alla nuova generazione di console, Ubisoft ha donato a questo nuovo episodio di Splinter Cell un comparto tecnico realmente ineccepibile. Un motore grafico roccioso, capace di muovere scene dettagliate e un quadro grafico pulito e texturizzato a dovere è solo una parte dell'ottimo lavoro svolto. Apprezzabile, soprattutto sugli schermi ad alta definizione, il lavoro maniacale svolto sui modelli poligonali dei protagonisti, di cui si possono notare anche i minimi dettagli. Le cicatrici sul cranio di Sam, il sudore e l'espressività del volto sono tutti fattori che aiutano a ricreare un ambiente di gioco credibile e, di conseguenza, facilitano il giocatore a calarsi nei panni dell'infallibile agente NSA. Peccato invece per qualche errore grossolano (clipping, oggetti sospesi a mezz'aria), che infastidiscono ma non intaccano l'ottimo quadro generale. Discreto il sonoro che affianca alle voci storiche dei personaggi di contorno (Lambert, nella fattispecie), anche un nuovo doppiatore per Sam Fisher, che non fa rimpiangere l'ottimo Luca Ward (in alcuni frangenti le voci si somigliano moltissimo).
Chiude il discorso il multiplayer, rivisto e corretto rispetto al precedente episodio. Rispetto a Chaos Theory il rapporto spie-mercenari è molto più equilibrato. Prima le certezze. Uno in più: da due contro due lo scontro diventa tre contro tre. Sempre spie contro mercenari, sempre visuale in terza per i primi e in soggettiva per i secondi. Adesso le novità. Aggiornamenti nell'arsenale, possibilità di accelerazione, di effettuare salti, compresa l'impiego di un drone-spia. Se l'asso nella manica della spia è il silenzio e l'incapacità del mercenario di rilevare suoni, questa volta il mercenario dispone di un visore per individuare i movimenti ravvicinati della spia. Sprovvista dello shocker-gun, la spia può disabilitare "hackerare" ogni dispositivo e sono dotate di un'agilità ancora più accentuata attivando mosse speciali premendo un solo pulsante sul controller. Infine anche alla spia è concessa la chance di uccidere in modo stealth il mercenario, ma a mani nude. Purtroppo Ubisoft ha preparato il necrologio per il multiplayer cooperativo che tanto "chaos" aveva creato tra i giocatori. Ma non ci sarà comunque tempo per versare lacrime di fronte ad un notevole arricchimento delle modalità competitive.