The Last Oricru alla ricerca dell'equilibrio tra RPG e Soulslike
The Last Oricru, sin dal suo annuncio, aveva solleticato l'interesse di molti. GoldKnights, team della Repubblica Ceca, aveva fatto annunci riguardanti uno stile di gioco capace di unire le meccaniche dei vari “soulslike” a quelle dei giochi di ruolo più blasonati, offrendo una trama aperta basata sulle nostre scelte. Dopo aver giocato alla versione definitiva del titolo su Xbox Series X, disponibile anche per Series S, PlayStation 5 e Personal Computer, possiamo dire che il risultato è ben lontano da quello che si poteva sperare. Fermo restando il fatto che gli sviluppatori non hanno avuto sicuramente accesso a un budget adeguato, ci siamo trovati tra le mani un titolo estremamente acerbo e carente da tanti punti di vista, anche se paragonato a giochi indipendenti.
Ma andiamo con ordine e caliamoci nei panni di Silver, il nostro protagonista di cui, in effetti, non sappiamo nemmeno il vero nome. In puro stile “sci-fi” ci risvegliamo in una capsula, dopo chissà quanto tempo in animazione sospesa, ma dopo pochi secondi e il messaggio di una entità non ben definita, ci ritroviamo su Wardenia, un pianeta dall’atmosfera fantasy con tocchi di fantascienza. Come da copione classico, della nostra memoria non è rimasto nulla e siamo ospiti (prigionieri, diremmo) dei Naboru, una razza umanoide dal fisico possente che vuole sfruttare la nostra immortalità. Si, perché grazie a una cintura che indossiamo, ma di cui ovviamente non sappiamo nulla, a ogni nostra morte segue una risurrezione.
La trame offre sin da subito una serie di cliché, ma anche tanti interessanti spunti. Oltre ai Naboru conosceremo subito i Ratkin, una razza che mescola tratti umani a quelli dei roditori, tenuta in schiavitù dai Naboru dopo una violentissima guerra, e il loro status di schiavi è dettato dalla motivazione che tra i Ratkin serpeggiano solo caos e violenza. Nel mentre facciamo conoscenza con gli altri tre umani atterrati su Wardenia, anche loro senza più ricordi e probabilmente arrivati dalla terra con la nostra stessa astronave, per quanto qualsiasi informazione arrivi unicamente delle ipotesi dei protagonisti.
Questo incipit dà il via a una trama davvero molto interessante, dove impareremo a conoscere le razze presenti sul pianeta e cercheremo di capire le origini delle loro azioni, così da motivare sempre più le nostre scelte in base alle situazioni che dovremo prendere, visto che saremo chiamati a compiere azioni che potrebbero modellare la storia sino al suo epilogo, per quanto giocando ci siamo resi conto che ci sia una struttura di passaggi obbligati a cui non potremo sottrarci. Resta il fatto che il sistema ruolistico di scelte offre un buon appeal, anche perché le fazioni in campo non sono stereotipate quanto si potrebbe pensare inizialmente: la società Naboru è composta da frange variegate e dalle differenti posizioni politiche, discorso simile per i Rarkin, senza contare che anche tra i pochi umani sul pianeta non c’è un pensiero unico su come comportarsi. Se tutto questo non vi basta, sappiate che portando avanti la trama arriverà anche una terza fazione, con cui vi assicuriamo che rapportarsi sarà abbastanza… complicato!
Anche l’occhio vorrebbe la sua parte
Come è facile comprendere, l’impostazione e le basi su cui poggia The Last Oricru sono, se non del tutto originali, estremamente intriganti e capaci di far alzare l’attenzione degli amanti dei giochi di ruolo, come è capitato a chi sta scrivendo. Purtroppo però, come anticipato nelle prime righe di questo articolo, già dai primi minuti di gioco ci si rende conto che qualcosa non ha funzionato. Il gameplay è in terza persona e ci vede muoverci per il mondo, parlare con svariati personaggi non giocanti, risolvere quest e combattere con armi e magie.
Si nota subito una qualità grafica che ci avrebbe lasciati indifferenti già su PlayStation 3 e Xbox 360, tra ambienti spogli, modelli poligonali spigolosi, una illuminazione mal calibrata e animazioni legnose. Queste ultime impattano pesantemente anche sul combat system che risulta poco fluido e spesso confusionario, nonostante la presenza di un sistema di lock on. Le battaglie sono basate su parate, schivate e attacchi, ma in breve tempo si capisce che il tempismo dell’una o dell’altra azione non è calibrato a dovere rispetto alle altre. L’aggiunta di telecamere poco reattive e inclini a cercare angoli scomodi per la visuale, chiude il quadro di un gameplay mal riuscito che solo nelle intenzioni si avvicina ai soulslike più iconici. Certo, c’è una alta difficoltà di fondo anche scegliendo il livello più facile, sono presenti postazioni simili ai falò, ma questi elementi non basta a restituire un feeling adeguato.
Non mancano bug assortiti e lo stesso sistema di dialoghi, in diverse situazioni, ha mostrato una fastidiosa ridondanza delle scelte, ma va detto, chiudendo un occhio, che questo non va a impattare sulla componente ruolistica e narrativa che, sottolineiamo, rimane di buona fattura. Le musiche non aiutano, le voci inglesi sono scialbe, rimane una discreta traduzione dei testi in italiano, per quanto ci sia qualche imprecisione, ma niente di così terribile. Insomma, per quanto si stia parlando di un titolo offerto al prezzo budget di 39,90 euro, il risultato finale è pesantemente menomato da una realizzazione tecnica ampiamente al di sotto della media, anche volendo prendere a riferimento altri videogame sviluppati da team senza grandi disponibilità economiche. A chi ama i giochi di ruolo fa male al cuore vedere tutte le buone idee stilistiche e di trama avute dai GoldKnights gettate alle ortiche a causa di una realizzazione così deficitaria, ma è indubbio che alla base dello sviluppo ci siano delle menti che amino davvero i GDR. Forse, con maggiore esperienza, da questi ragazzi della Repubblica Ceca, vedremo in futuro titoli maggiormente godibili e più rifiniti, ma sarà necessario prendere una reale dimestichezza con i mezzi messi a disposizione dalla tecnologia.