Una serie che non cambia Nella notte dove tutte le vacche sono nere (parafrasiamo pure il buon Hegel) sono in pochi a preoccuparsi di che colore sia l'erba. E cosi, nell'era videoludica dove mischiare generi o alternarli sapientemente diviene una tappa obbligata nello sviluppo di ogni gioco, in special modo nel campo degli strategici/gestionali dove è più facile variare a piacimento meccaniche di gioco e approcci, parlare di un gioco fedele al suo genere "inusuale" è quantomeno degno di nota. Tratto distintivo della Serie Settlers, qui alla sesta incarnazione, è stato sempre l'attenzione per la pianificazione edilizia del borgo sotto la nostra giurisdizione. Diversamente dal filone di strategici che fa capo a Age of Empires (e sia chiaro: il sottoscritto considera il secondo capitolo, Age of Kings, l'rts per eccellenza), in Settlers non basta costruire un solo edificio per assicurarsi l'entrata costante di una particolare risorsa, in quanto il frutto della caccia, dell'estrazione o della raccolta (a seconda dei casi) va ulteriormente lavorato tramite strutture intermedie, tanto meglio se esse si trovano adiacenti al luogo di raccolta della materia prima. Viene da sé che già dalla costruzione degli edifici di base, falegnameria, capanna del cacciatore e del pescatore, macelleria, miniere varie, un certo talento nell'organizzare catene di produzione efficienti e funzionali diviene indispensabile. In virtù dei bisogni primari, che vanno via via raffinandosi con il crescere della città e del suo grado di popolarità (che dipende da quante feste di paese, prodotti per la pulizia, funzioni religiose varie indiciamo o produciamo) l'intero sistema economico si basa su un fragile equilibrio, a dir la verità, fin troppo facile da alterare. Ciò che pesa maggiormente è la richiesta di cibo, specialmente nei mesi invernali, quando cioè, in conseguenza di una reazione di causa-effetto tra le condizioni ambientali e la produzione agricola, i campi geleranno e i vari settlers si muoveranno più lentamente.
Una veduta a media altezza del nostro ridente borgo
Anche al massimo zoom il dettaglio rimanet alto
La cattedrale: un pò spoglia ma ben riprodotta
Guerra e Commercio, Eroi e ...soldati... Per correre ai ripari dai rigori della stagione fredda esiste un sistema di commercio gestibile tramite il proprio magazzino principale e abbastanza realistico: le merci in uscita vengono caricate su dei carretti e automaticamente indirizzate verso il luogo designato. E' inoltre possibile scortarle con dei piccoli contingenti armati per metterle al riparo da attacchi indesiderati di banditi o animali selvatici; per poter acquistare un qualcosa, invece, è necessario che il nostro Eroe dia presente nella piazza del mercato alleata, permettendoci di scegliere le mercanzie di cui abbiamo più bisogno in cambio di un certo quantitativo di denaro, che viene sempre mandato tramite dei carri da un magazzino all'altro. Questi eroi sono gli alfieri della nostra gestione strategica: selezionabili, all'inizio del gioco, da una rosa di nomi che va via via ampliandosi, possiedono bonus specifici attivi (distribuire cibo, attacchi speciali,..) o passivi (sconti nei costi di produzione, ad esempio), si occupano di peregrinare da una parte all'altra della mappa per accettare missioni o fondare avamposti in territori inesplorati e possono, una volta raggiunti certi obiettivi, essere promossi, sbloccando nuove strutture per la loro città. Poca attenzione è stata invece riposta nella gestione delle unità militari, sommariamente divisa in 3 canoniche specializzazioni (fanti, arcieri e cavalieri) alle quali è poi possibile affiancare alcune macchine d'assedio. L'impossibilità di schierare i propri uomini secondo un qualsivoglia schema militare che risulti poi efficace rende le piccole scaramucce che si presentano saltuariamente delle semplici prove di forza in cui è il numero a prevalere.
Una festa del paese, ottima occasione per far accrescere la popolazione della città
La minimappa che ci viene mostrata prima di ogni missione
Sarà meglio dividere la città in quartieri specializzati in una particolare produzione
La trama? Non c'è, ma la tecnica si Non spendiamo che poche righe per l'inconsistente trama che lega le varie missioni della campagna in singolo, troppo lontana da eventi storicamente plausibili e troppo poco caratterizzata per creare un credibile universo alternativo, al contrario di quanto la Blizzard è riuscita a fare con Warcraft o altri sviluppatori con altri titoli dello stesso genere. Il comparto grafico, inoltre, è esigente e poco scalabile ma è una vera gioia per gli occhi, e si difende bene nel rappresentare rocce, alberi e specchi d'acqua (che rimangono però inalterati al passaggio delle unità) e predilige un look cartoonesco per i soldati e i cittadini, senza lesinare sulla qualità degli edifici e sugli effetti atmosferici. Una pratica interfaccia grafica accompagna il nostro vagare da una angolo all'altro dello schermo, sebbene nella rappresentazione topografica si poteva di certo dare di più. Feste cittadine e eventi religiosi animano la vita della città, riempiendola di suoni che variano in base al grado di zoom con il quale osserviamo la scena, ma senza regalare momenti di particolare enfasi (fortuna che c'è l'avanzamento veloce...) Riassumendo: una buona riedizione di un concept di gioco particolare, ma che non regge l'agguerrita concorrenza di altri titoli, che offrono, in estrema sintesi, molto di più che di un simulatore di edilizia medievale. Ci duole dirlo, ma Settlers è tutto questo, e poco di più.
Le mucche appena acquistate migrano verso i nostri territori. Buon livello di dettaglio anche qui
Un piccolo drappello di arcieri
La stagione invernale influisce anche sulla produzione agricola
Una riuscita riedizione? Certo, ma se il gameplay offre solo questo non c'è da starne allegri. Non c'è inventiva, e due cose pesano molto:la gestione delle unità militari è scandalosamente semplificata e la trama poggia su una serie di missioni stereotipate e slegate tra loro. Se siete dei fan della serie non lasciatevelo scappare, per tutti gli altri c'è molto di più in giro...
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Se vi parlo di giochi racing arcade con tanta, tantissima tamarraggine, allora la mia memoria corre ai primi titoli portavano questa "filosofia" delle corse clandestine nei primi titoli che ho avuto il piacere di giocare e tra questi come non citare il grandissimo Need For Speed Underground... ma soprattutto il suo seguito. Da lì in poi si potrebbe citare una pletora di bellissimi giochi che ne ricalcavano i passi, ma sempre meno sul concetto di modifica delle auto e soprattutto sul piacere di una bella gara in derapata come vera protagonista. In Giappone però non è proprio così, ci sono vari manga e anime e videogame che ne incarnano l'essenza ed essendo io un grandissimo fanatico di Initial D, è obbligo fare qualche parallelismo con questo JDM.
Quest'ultimo infatti non si limita a proporre un’esperienza di guida, ma si pone come una vera e propria celebrazione della cultura del drifting giapponese e come l'opera Shuichi Shigeno tra una gara e l'altra la storia è narrata tramite dei manga, pur non originalissimo, ma molto piacevole. Sviluppato da Gaming Factory, questo simcade open world riesce a trasportare il giocatore nel cuore pulsante del Giappone, tra passi montani avvolti dalla nebbia, strade cittadine illuminate dai neon e officine artigianali dove ogni bullone racconta una storia.
La qualità estetica e artistica è di primissimo livello.
L’ambientazione è uno dei punti di forza più evidenti: ogni elemento, dai ciliegi in fiore che cadono sull’asfalto alle lanterne che oscillano al vento, è pensato per evocare un senso di autenticità e immersione totale. Il comparto sonoro contribuisce in modo determinante a questa atmosfera, con suoni ambientali realistici e una colonna sonora che mescola lo-fi, synthwave e hip-hop giapponese, creando un sottofondo perfetto per ogni sessione di guida e anche in questo caso le musiche e lo stile ricalca da vicino quello del videogame a cui si ispira sotto egida SEGA.
Il gameplay si colloca in una zona di equilibrio tra arcade e simulazione, offrendo un sistema di guida accessibile ma al tempo stesso profondo. Ogni auto ha una propria personalità, e padroneggiarla richiede tempo e dedizione. Il drifting, cuore pulsante del gioco, è trattato con una cura quasi reverenziale: le meccaniche di derapata sono fluide, reattive e incredibilmente soddisfacenti, con un sistema di punteggio che premia la precisione, l’angolo e la continuità delle manovre. Le modalità di gioco spaziano dall’esplorazione libera dell’open world alle competizioni a punti su tracciati cittadini o montani, passando per gare di velocità pura e missioni secondarie come le consegne di sushi, che aggiungono un tocco di umorismo e varietà. Non manca una scuola di drift, un tutorial esteso che accompagna il giocatore dalle basi alle tecniche più avanzate.
Il parco auto è un altro elemento che farà la gioia degli appassionati: si parte con icone del mondo JDM come la Nissan Silvia S15 e la Toyota AE86, ribattezzata Toyuni Hatchi (sì, lo so, saperlo è la cosa più importante del gioco!), ma il vero punto di forza è la personalizzazione. Ogni veicolo può essere modificato in profondità, sia dal punto di vista estetico che prestazionale. Si possono cambiare verniciature, body kit, cerchi, spoiler, luci posteriori e scarichi, ma anche intervenire su sospensioni, differenziale, cambio, turbo e freni. Persino gli interni sono personalizzabili, con sedili da corsa, volanti sportivi e rollbar. Il livello di dettaglio è tale da permettere la regolazione della pressione degli pneumatici o del camber delle ruote, per ottimizzare la derapata in base al proprio stile di guida.
Dal punto di vista tecnico, JDM è una gioia per gli occhi. Il motore grafico gestisce con eleganza effetti di luce dinamici, riflessi realistici e condizioni meteo variabili, offrendo un’esperienza visiva di altissimo livello. Le texture sono nitide, le animazioni fluide e l’ottimizzazione su PC è sorprendentemente solida, anche su configurazioni di fascia media. Il comparto sonoro, come già accennato, è altrettanto curato: ogni motore ha un sound unico, le derapate “cantano” sull’asfalto e la colonna sonora accompagna perfettamente ogni momento di gioco.
Il multiplayer online consente di sfidare altri piloti in eventi drift o semplicemente esplorare l’open world in compagnia, con eventi stagionali, classifiche globali e raduni virtuali in stile car meet. La longevità è garantita da una campagna narrativa con missioni e rivalità, eventi giornalieri e settimanali, e aggiornamenti promessi dagli sviluppatori che introdurranno nuove auto e tracciati.
Gamesurf alla guida
Hai parlato quindi solo bene di questo gioco, ma ci sono difetti? Mi direte voi… ebbene sì e non sono pochi, minori, ma anche macro oltretutto, ma andiamo con ordine. La parte di guida e l'handling è il cuore pulsante del gioco stesso, talmente bello da essere quasi perfetto, ottimo con il pad, imprescindibile col volante e anzi sembra essere il motivo per cui fare l'acquisto dello stesso. La parte delle luci e degli effetti meteo è assurdo per quanto sia realistico, ottimizzato e ben realizzato, pur con qualcosa di "sporco" negli effetti particellare da sistemare, ma è robetta da poco.
Fare consegne a domicilio può essere esaltante e complicato.
Il grosso difetto è invece l'idea di fare strade così tanto strette da essere impossibile non andare contro le barriere poste dalle costruzioni stesse e nello stesso tempo avere una fisica delle collisioni con un comportamento assurdo che "spara" l'auto in ogni direzione, senza quella più logica. L'IA degli avversari è spesso "particolare", nel senso che sembra che a volte gli avversari facciano una gara senza che voi ci siate, altre volte hanno l'aggressività di chi non vuole vincere, ma solo uccidervi (male). In tutto questo arrivo con il difetto più grande, macro e assurdo: l'economia di gioco. Le auto costano molto, troppo, ma soprattutto i potenziamenti hanno un prezzo che è fuori scala e spesso non potete vincere se non quella modifica che vi permette di avere il giusto boost di prestazioni aggiuntive, ma spendere nei potenziamenti vi preclude di acquistare auto e di conseguenza altri potenziamenti ecc.
Potete fare delle gare che vi permettono guadagnare denaro poi da spendere dopo in potenziamenti, ma anche in questo caso dovete buttarvi nelle stesse gare, per decine di volte e alla fine questo incrina la vostra possibilità di proseguire nel gioco stesso. In una decina di ore considerate che ho buttato via per intero i salvataggi almeno un paio di volte per questi errori critici, quindi considerate la cosa quando avranno sistemato questo difetti.
In definitiva è consigliato? Per quanto mi riguarda è il miglior gioco di corse arcade con il "drift" che conosca, quindi dagli anni '90 ad oggi. Una perla rara, unica, con tantissime pecche e ancora un po' acerbo, ma è quel gioco che dovete comprare senza nemmeno pensarci su.
JDM è assolutamente "raw", ha un cuore enorme, alcuni difetti, ma non sbaglia di nulla quando si parla di fare il vero "drift". Se vi piacciono i racing arcade... compratelo! Se amate sgommare in modo più o meno approfondito, con pad o volante, non lasciatelo sullo scaffale.
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Quella degli Action-RPG è una categoria certamente florida e la sotto-categoria dei Souls-Like, che in Demon's Souls e Dark Souls getta le sue radici, negli ultimi 15 anni ha sfornato svariati esponenti, fornendo inoltre nuove basi e meccaniche anche per titoli di altra tipologia [basti pensare a Blasphemous]. Questa volta a cimentarsi nel genere sono i ragazzi di MercurySteam che per questo Blades of Fire scelgono di spostare il focus del sistema dai classici parametri degli RPG alla realizzazione e gestione delle armi. Ma, come sempre, andiamo con ordine.
Narra il mito che il mondo intero sia stato creato da sette giganti denominati Antichi Forgiatori, i quali concessero parte dei loro poteri ad altrettanti umani – i Mastri Forgiatori – tramite il dono di appositi Magli in grado di creare l'acciaio, indispensabile per combattere la guerra contro i misteriosi e terribili Taumaturghi. Secondo lo stesso mito, ogni volta che un Mastro Forgiatore muore i suoi poteri migrano verso un nuovo individuo degno. Per millenni il mondo è stato in pace, ma poi la regina Nerea ha lanciato una maledizione che ha trasformato in pietra tutto l'acciaio del mondo tranne quello delle armi delle sue truppe, dando così il via ad una tirannia incontrastata.
In questo contesto conosciamo Aran de Lira, un fabbro che vive una vita ritirata ma che ogni tanto riceve la visita del suo vecchio amico, l'abate Dorin. L'ultima visita, in cui l'abate è accompagnato dal giovane e petulante Adso da Zelk, si conclude però tragicamente per via di un agguato dei Cani [leggasi: soldati] della Regina: in punto di morte l'abate consegna a Aran un Maglio dei Forgiatori che dona al fabbro i poteri di un Mastro Forgiatore. Toccherà dunque ad Aran, accompagnato da Adso, sovvertire con il suo acciaio la tirannia della regina.
Che pericoli ci attenderanno in quel castello?
Blades of Fire ci vede dunque interpretare Aran impegnato nel suo pericoloso viaggio e nel suo percorso di crescita, più a livello artigianale che non in senso statistico. Sì, perché – è bene dirlo subito – nel gioco non saranno presenti le classiche statistiche degli RPG come forza o intelligenza né i tipici alberi delle abilità/talenti: Aran avrà modo di incrementare solo i suoi massimali di salute e di stamina raccogliendo appositi power-up permanenti. Viceversa, la progressione avverrà attraverso la gestione delle armi, su cui ci soffermeremo nel prossimo paragrafo.
Dal punto di vista delle meccaniche di gioco, Aran potrà contare su ben 4 tasti d'attacco – i tasti frontali del controller – che corrisponderanno ai colpi al torso, alle gambe o alle due braccia, in maniera piuttosto intuitiva e naturale da gestire; tenendo premuto un tasto si potrà inoltre effettuare un attacco caricato. Il tipo di attacco dipenderà dall'arma equipaggiata, con alcune di esse che possono variare tra due forme – per esempio una spada può colpire di taglio o affondare di punta – e la possibilità di cambiare rapidamente arma tra una selezione rapida di quattro. Oltre ai tasti d'attacco e a quello per il cambio posa/arma, sono presenti la parata – che può essere ad impatto se eseguita col giusto tempismo – la schivata/rotolata, la cote per affilare le armi e la pozione curativa, ovviamente limitata negli usi e da ricaricare presso le incudini-checkpoint. Inutile dire che riposare presso uno di questi spot riporterà sulla mappa tutti i nemici tranne quelli speciali.
La progettazione di una nuova arma
Giù di maglio per rinforzare l'acciaio!
La nuova arma è pronta: troviamole un bel nome...
Blades of Fire: le armi al centro dell'esperienza
Come anticipato, le armi costituiscono il vero fulcro dell'esperienza di Blades of Fire: se si fa eccezione per la prima spada di Dorin, Aran dovrà infatti creare con il suo Maglio tutto il suo arsenale. Per farlo dovrà prima ottenere una Pergamena della Forgia e l'unico modo è quello di sconfiggere sufficienti nemici che utilizzano l'arma in questione; se per la classica spada da soldato questo è piuttosto semplice, per uno spadone Ammazzatroll o una Katana il processo potrebbe richiedere parecchio tempo.
Una volta ottenuta la Pergamena, Aran potrà accedere alla Forgia degli Antichi e lì progettare la sua arma: ciascun modello infatti può variare in elementi come la forma della lama, la dimensione della testa, la lunghezza dell'asta, il peso del pomolo e così via, tutti dettagli che modificheranno le statistiche di danno, velocità, penetrazione, peso, robustezza. Inoltre, per ogni elemento Aran dovrà selezionare il tipo di acciaio o legno da adoperare, limitato dalle risorse a sua disposizione.
Non finisce qui: una volta “stampata” l'arma sarà suo onere quello di rinforzarla attraverso il minigioco della Forgia in cui dovrà sferrare martellate più o meno forti sull'acciaio rovente, orientando il maglio per plasmare la forma più perfetta possibile. L'esito di questo minigioco determinerà quante volte l'arma potrà essere riparata prima di diventare totalmente inutilizzabile. Sì, perché – e non è dettaglio da poco – in Blades of Fire le armi si deteriorano[oh se si deteriorano!] con l'uso, perdendo prestazioni fino all'inutilità. E non è tutto: quando Aran sarà sconfitto non lascerà in terra “soldi”, “anime” o “esperienza” come avviene negli altri Souls-Like [queste valute non esistono in Blades of Fire]... no: sarà l'arma in uso a cadere a terra e Aran dovrà recuperarla fisicamente se non vuole rassegnarsi a fare a meno di lei.
Aran e Adso in un momento di riposo
MercuryEngine 6 sa il fatto suo
MercurySteam non è un team di primo pelo e malgrado molte altre realtà autoriali, non solo Indie, utilizzino sempre più frequentemente dei motori grafici pluritestati e supportati – come Unity o Unreal Engine – opta per continuare a investire nello sviluppo del suo MercuryEngine proprietario che è arrivato alla sesta incarnazione. Il risultato in Blades of Fire è, ad onor del vero, decisamente encomiabile: su PS5 standard abbiamo un'ottima risoluzione di base accompagnata da animazioni fluide e frame rate stabile anche in presenza di effetti speciali, variazioni di luce e numerosi nemici su schermo. Certo qualche trucchetto c'è, come lo slow-motion in caso di certi contrasti [tanto non c'è multiplayer] o il fatto che le zone di mappa attive siano mantenute entro limiti modesti, ma il campo visivo non è male e in generale il risultato finale rivaleggia con produzioni molto più blasonate.
La colonna sonora presenta dei brani molto ben realizzati, composti nientemeno che da Óscar Araujo, che accompagnano gradevolmente l'esperienza di gioco, e indirettamente funge anche da “indicatore sonoro” per il giocatore, dato che cambia repentinamente quando in zona ci sono nemici attivi. Il doppiaggio è limitato alla lingua Inglese, con Aran e Adso che scambiano spesso battute con le loro parlate profondamente differenti [il fabbro ha inflessioni molto popolari, il ragazzo accademiche] e occasionali personaggi in più con cui parlare. Tutti i testi sono comunque disponibili in Italiano, con una traduzione molto ben curata.
Lo studio degli ambienti è notevole
Aecides: il primo boss non si scorda mai
Uno scontro con un Troll è sempre epico
Blades of Fire: differenze marcate e qualche riserva
Blades of Fire presenta un'esperienza di gioco che indubbiamente si rifà per buona parte ai classici souls-like ma con differenze prettamente marcate, prima fra tutti la possibilità di scegliere tra tre livelli di difficoltà in cui solo il più alto è vagamente paragonabile ai lavori di From Software. Ovviamente la differenza più evidente è relativa allo sviluppo del personaggio, che dai parametri classici degli RPG sposta il focus totalmente sulle armi, obbligando anche a rinnovare ciclicamente il proprio arsenale – e dunque le tecniche da combattimento – man mano che si possono forgiare armi nuove e differenti. Perdere una buona arma a causa di un KO può essere piuttosto doloroso e in generale farete di tutto per recuperarla, ma la verità è che sarà bene avere sempre due-tre armi di scorta, anche solo per avere un rimpiazzo quando quelle “preferite” si danneggiano.
Nel corso dell'avventura sono introdotti inoltre svariati altri elementi, come l'utilizzo di rune o altri poteri in luogo di più comuni chiavi, oppure potenziamenti speciali per le armi possedute. In certe fasi di gioco Aran dovrà avvalersi dell'aiuto di occasionali seguaci che però tendono ad eclissarsi al minimo cenno di pericolo – e non parliamo di Adso, che è sì petulante ma in generale sa badare a se stesso. Alcune di queste scelte di design ci hanno anche fatto storcere il labbro: parliamo ad esempio delle fasi in cui abbiamo dovuto letteralmente dovuto fare da balia ad un personaggio-chiave, o di task da svolgere con nemici che continuano a comparire senza limiti, o di mini-boss ricorrenti che ci hanno perseguitato come neppure il Nemesis di Residenteviliana memoria... Non sempre è una buona idea buttare nel calderone tutte le idee che vi vengono in mente, MercurySteam: alcune di queste meccaniche stanno meglio nei giochi appositi, credeteci! D'altro canto è innegabile che in questo modo si garantisca la varietà nel gioco.
Blades of Fire comunque è un opera molto valida, che a monte di una trama sostanzialmente lineare pone uno sviluppo degli ambienti vasto e progressivamente intricato, un certo grado di back-tracking non invasivo, nemici vari e numerosi, occasionali boss e mini-boss e in generale un'ambientazione che, pur navigando a vista nel fantasy classico/dark, riesce ad avere un certo mordente. I retroscena sul passato di Aran e di Adso, del regno e del mito in generale sono parecchi e il superamento di ogni sessione o capitolo porta all'interesse e la curiosità sulla successiva. Non mancano ovviamente le ispirazioni smaccate [una su tutte: Kratos e Atreus di God of War] ma non siamo mai nel campo delle scopiazzature ed al resto pensano le scelte originali di cui abbiamo parlato. Per noi dunque è una promozione piena con tanto di complimenti a MercurySteam per il lavoro svolto.
Blades of Fire ci ha decisamente conquistato: il lavoro di MercurySteam tiene tranquillamente testa a team e motori grafici più blasonati offrendo un'esperienza di gioco gradevole e appassionante – salvo qualche occasionale sbavatura – in quello che non è “il solito souls-like” ma un gioco con idee interessanti ed esclusive e contemporaneamente uno sviluppo vasto ed intrigante. Una vera sorpresa in un panorama videoludico sempre più pieno di sequel e “more of the same”.
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Deliver At All Costs è il nuovo gioco d’azione targato Studio Far Out Games e KONAMI. Ci siamo tuffati nella tipica atmosfera degli anni ’50, tra missioni bizzarre, musica iconica e pericolose bombe pronte a far saltare un intero quartiere.
Quando abbiamo iniziato a giocare sapevamo di trovarci davanti a un’esperienza del tutto fuori dal comune, quindi ci siamo preparati a distruggere interi edifici (e non solo). Tuttavia, non sapevamo che quest'avventura avrebbe preso una piega sempre più assurda, caotica e imprevedibile.
La storia di Deliver At All Costs: un corriere misterioso
Questo gioco potrebbe sembrare un banalissimo simulatore di consegne e, in effetti, il gameplay si concentra interamente su un corriere alle prese con alcune delle missioni più bizzarre in assoluto. Ciò che ci ha immediatamente sorpreso, però, è una storia ben realizzata, coinvolgente e ricca di colpi di scena.
Il comparto narrativo, suddiviso in tre atti, racconta le incredibili avventure di Winston Green, giovane protagonista dal passato misterioso. Deliver At All Costs è folle, insolito, eccentrico, ma inaspettatamente umano. Questa storia riesce a colpire con forza, come uno schiaffo in faccia, mostrandoci alcune delle difficoltà più delicate della vita: la perdita improvvisa di un lavoro e l’assenza di certezze e stabilità. Questi momenti di sconforto ci rendono semplicemente umani e ci costringono a rialzarci lentamente, cercando di raccogliere quei cocci taglienti e di plasmarli nella nostra nuova identità.
Sebbene la trama non sia estremamente complessa, crediamo si sposi davvero bene con il gameplay. Questo connubio ha infatti dato vita a un gioco coinvolgente, in grado di farci ridere ma anche di riflettere attentamente, ed è un aspetto da non sottovalutare. Il protagonista ha un passato ben definito, ma anche delle emozioni e delle debolezze intrinseche che forgiano la sua personalità. Inoltre, anche gli altri personaggi presentano delle particolarità e hanno un tratto distintivo, quindi non sono affatto un mero contorno interattivo.
La storia di Deliver At All Costs si concentra su Winston Green, un giovane ragazzo dal passato misterioso.
Il gameplay di Deliver At All Costs: caos, consegne e missioni folli
Mettiamo da parte i sentimentalismi e concentriamoci sul fulcro essenziale di questo gioco. I tre atti sono caratterizzati da mappe completamente diverse, interamente esplorabili a piedi o a bordo di qualsiasi veicolo. Potete guidare il pick-up aziendale, ma anche rubare un’auto parcheggiata e seminare ancora più illegalità in giro.
Aspettatevi di affrontare missioni sempre più pazze e legalmente discutibili, come meloni marci da “verniciare” e rivendere (ci auguriamo che il colorante sia almeno commestibile) o interi carichi di napalm e bombe da trasportare con attenzione. Sembrerebbe tutto quasi normale e fattibile, con un po’ di cautela, ma qui viene il bello: gli sviluppatori vogliono che guidiate come se aveste un esercito di zombie famelici alle calcagna. Non importa quanto siate cauti: il vostro veicolo è deliziosamente fatto per distruggere tutto e… tutti.
Tra vere e proprie speedrun, inseguimenti e catastrofi scenografiche, finirete col mandare giù interi edifici e investirete un bel po’ di persone. Niente timore, però, vi insulteranno come se niente fosse nonostante vengano sbalzate in aria per centinaia di metri (tra l’altro, il suono dell’impatto ricorda un palloncino, quindi gli autori vi invitano chiaramente a passare al lato oscuro).
Le consegne sono sempre diverse ed esilaranti, quindi dimenticatevi di recapitare un semplicissimo pacco postale: la cosa più normale che vi ritroverete a trasportare sarà un enorme pesce spada pronto a fuggire. Tuttavia, alcune missioni ci sono sembrate leggermente monotone e a tratti frustranti, in particolare quelle caratterizzate da diverse fasi. A contribuire negativamente è stato il continuo andirivieni tra l’appartamento e il deposito, a ben due mappe di distanza. Per fortuna abbiamo potuto usufruire del viaggio rapido; in caso contrario, l’esperienza sarebbe stata decisamente frustrante dopo diverse ore di gioco.
Il gameplay di Deliver At All Costs tra incidenti, catastrofi naturali e illegalità.
Città da esplorare e veicoli da personalizzare
Durante la nostra esplorazione ci siamo imbattuti in casse distruttibili, contenenti del denaro. Certo, quello di Winston Green è un lavoro retribuito, ma personalizzare il proprio veicolo richiede un bel po’ di risparmi. In Deliver At All Costs abbiamo infatti potuto potenziare l’auto aziendale, aggiungendo un argano o addirittura una sorta di catapulta.
In alcuni negozi è anche possibile acquistare componenti separati, costruendo quindi clacson infernali o spuntoni per ruote. Ciò rende sicuramente il gioco più coinvolgente e stimolante, ma a contribuire sono le diverse missioni secondarie, tuttavia non sempre intuitive. Se la storia principale richiede poco più di 10 ore, i vari elementi sparsi per la mappa possono decisamente raddoppiarne la durata. Ovviamente non aspettatevi una caterva di quest alla Assassin’s Creed Odyssey o The Witcher 3, si tratta pur sempre di un progetto più contenuto e lineare, ma questi piccoli aspetti arricchiscono piacevolmente il gameplay.
Anche la guida del veicolo è molto divertente e fluida, seppur tremendamente caotica nei momenti più concitati. I meno esigenti potranno selezionare la modalità semplificata, mentre i più competitivi potranno mettere alla prova le loro abilità con la guida standard.
Come già anticipato prima, però, la fisica è la protagonista assoluta di questo gioco. Diverse collisioni danno vita a danni ben specifici, come un cofano completamente saltato, un paraurti distrutto o una ruota danneggiata. Abbiamo anche testato la resistenza degli edifici: abbiamo fatto crollare delle case come se fossero di cartapesta e, onestamente, è stato a dir poco gratificante. Certo, alcuni elementi non sono affatto realistici, ma in fin dei conti è ciò che rende questo gioco così particolare.
Ci siamo scaraventati contro intere recinzioni, fatto crollare file di lampioni e fatto saltare idranti, ma abbiamo anche fatto arrabbiare i cittadini a tal punto da trasformarsi in maratoneti pronti a inseguirci e prenderci a pugni. Tuttavia, alcuni edifici non possono essere rasi al suolo, come il nostro appartamento o il magazzino principale.
La mappa di Deliver At All Costs è sempre diversa e dinamica.
Grafica, musica e comparto tecnico
Graficamente parlando, Deliver At All Costs non è un gioco next-gen, anzi, le cinematiche e i personaggi sembrano quasi usciti dall’epoca Xbox 360. Ciò non ci dispiace, dato che si tratta di un’avventura ugualmente stimolante, con un comparto narrativo ben realizzato e ricco di colpi di scena.
A contribuire è il doppiaggio in Inglese davvero convincente, e una colonna sonora che riesce a farci immergere nell’atmosfera tipica del 1959, con la musica Rockabilly e le voci con il caratteristico eco alla Elvis. Per fortuna il gioco gode anche di interfaccia e sottotitoli in Italiano.
Per quanto concerne il comparto tecnico, abbiamo giocato su un PC di fascia medio-alta e non abbiamo mai riscontrato problemi. Ad ogni modo, dato che trascorrerete il 90% del tempo a bordo del vostro veicolo, vi suggeriamo di giocare con un controller per un’esperienza più fluida.
La grafica di Deliver At All Costs non è particolarmente moderna.
Recensione di Deliver At All Costs, conclusione
Un po’ Crazy Taxi, un po’ GTA, Deliver At All Costs è un concentrato di follia, distruzione e mistero. Gli sviluppatori implorano che distruggiate qualsiasi cosa vi capiti a tiro, con una fisica davvero soddisfacente. In alcuni tratti abbiamo riscontrato un po’ di monotonia, ma nulla che abbia impattato particolarmente sull’intera esperienza di gioco.
Il viaggio rapido rende meno frustrante il tragitto tra appartamento e deposito, mentre le opzioni di personalizzazione e le missioni secondarie rendono l’esplorazione ancora più divertente e dinamica, sebbene in alcuni momenti non avessimo ben capito cosa fare con esattezza.
A contribuire è una storia che si sposa bene con il gameplay, tra l’altro pregna di messaggi su cui dovremmo tutti riflettere. Insomma, è un gioco decisamente consigliato agli appassionati del genere, nonché a chiunque voglia tuffarsi in una folle avventura in cui tutto, letteralmente tutto, è possibile.
Deliver At All Costs è un agglomerato di follia, caos allo stato puro, distruzione ma anche elementi inaspettatamente umani. Il comparto narrativo offre numerosi spunti su cui riflettere, nonché momenti a dir poco esilaranti. La fisica ben realizzata permette di distruggere interi edifici, quartieri e veicoli, ed è uno dei principali punti di forza del gioco. A contribuire sono le mappe esplorabili a piedi o alla guida di un'auto, una colonna sonora perfetta per l'atmosfera degli anni '50 e un doppiaggio davvero convincente. Alcune missioni si sono rivelate un po' monotone e il sistema di guida ci ha dato filo da torcere nei momenti più concitati, ma nel complesso è un'avventura decisamente consigliata agli amanti del genere.
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Distinguersi nel mercato dei metroidvania al giorno d'oggi è diventata un’impresa abbastanza ardua. La formula è stata sviscerata centinaia di volte, e ci sono così tante varianti sul tema che trovarne di nuove o quantomeno originali non è affatto semplice. Ma Cardboard Sword e Plaion, con il loro The Siege and the Sandfox, potrebbero avere una chance.
In uscita domani su PC tramite Steam, il titolo rimpiazza le meccaniche action e/o GDR che di solito accompagnano la componente platform con dinamiche puramente stealth. Una volta tanto quindi i combattimenti andranno accuratamente evitati, per un’esperienza tutta incentrata sulle capacità ginniche del protagonista, che strizzano l’occhio ai primissimi Prince of Persia degli anni ‘90. Un connubio riuscito?
The Siege and the Sandfox - Storia al servizio del gameplay
In The Siege and the Sandfox vestiremo i panni della Sandfox, la “Volpe del deserto”, una sorta di celebrità locale (pur essendo a conti fatti un sicario, come recita la pagina ufficiale del gioco). Durante una delle sue ronde, assiste suo malgrado all’omicidio del re da parte della regina. Scoperta, viene catturata e, dopo essersi beccata una coltellata al cuore, viene scaraventata nei sotterranei della città. Sopravvive (pur perdendo le abilità come manco Samus in un Metroid a caso), e ora deve navigare il labirinto di prigioni, catacombe e rovine per tornare in superficie e vendicarsi di chi l’ha accusata ingiustamente.
Non essendoci scontri di alcun tipo, e quindi neanche boss fight, a scandire l’avventura, la progressione sarà dettata dall’equipaggiamento trovato in giro, che ci consentirà di aprire nuovi percorsi, e dalle interazioni con gli abitanti del sottosuolo, che ci forniranno informazioni e obiettivi per proseguire la nostra impresa. Poiché avremo (quasi) sempre una meta da raggiungere, e l’esplorazione della mappa è (quasi) sempre molto scorrevole, il gioco mantiene un buon ritmo per gran parte della sua durata, ma senza mai raggiungere particolari vette.
Tutti i personaggi rivestono un ruolo prettamente funzionale. Servono solo a mandare avanti la storia, e pure gli eventi topici vengono risolti in modo blando e repentino, alla stregua delle voci di un elenco da spuntare. Sulla carta accade roba interessante, come aiutare gruppi di rivoluzionari, sventare congiure, eliminare culti di non-morti, assassinare reali, tuttavia la trasposizione a schermo non conferisce mai la giusta enfasi, rendendo l’esperienza una linea piatta dall’inizio alla fine. Lo standard è più che discreto, ma senza guizzi.
The Siege and the Sandfox - Eleganza acrobatica, comandi sotto stress
La Sandfox non annovera opzioni offensive nel suo campionario, eccetto un randello per stendere temporaneamente i nemici ignari alle spalle (e solo quelli meno corpulenti), pertanto il parco mosse verte per intero intorno alle sue prodezze acrobatiche: corse sul muro, salti a parete, piroette, scivolate, ogni forziere sblocca nuove abilità per affrontare un level design che valorizza tanto la capacità del giocatore di orientarsi quanto quella di saper sfruttare appieno le doti del proprio alter ego virtuale.
Le fasi platform non richiedono tempistiche stringenti, né particolari combinazioni di tasti, anzi viene richiesto di muoversi con fare metodico, attendendo ogni volta l’animazione di “startup” del personaggio e dosando la mole di input per volta. A ben pensarci, The Siege and the Sandfox è abbastanza fiscale in tal senso: non ci si appiglia se non si spicca il balzo quando lo vuole lui, alcune azioni non partono se prima non si mollano i tasti di troppo (esempio: non puoi planare se stai tenendo premuto il salto), oppure vanno per fatti loro se non gli si dà il tempo di “metabolizzare” la richiesta, e non riesce a processare due prompt a schermo (di nuovo, esempio: non puoi stordire un soldato sotto una torcia da spegnere, perché quest’ultima ha priorità, nonostante usi un tasto diverso)... Fila tutto liscio finché si segue il copione, ma non appena ci si azzarda ad uscirne il sistema di controllo tende a perdere la bussola, più per limitazioni congenite anziché scelte di design.
The Siege and the Sandfox - Stealth dalle buone intenzioni, ma l'IA rema contro
Quanto alla componente stealth, tra una scorribanda e l’altra incapperemo spesso in avamposti presidiati, con svariati nemici a pattugliare aree predefinite. La varietà non è il massimo, ma ogni location introduce nuove tipologie per tenerci allerta, anche se il loro modus operandi non cambia molto. Indagano se rilevano un rumore sospetto nelle vicinanze, ci corrono dietro o ci prendono a sassate qualora ci avvistino, e in caso riescano a beccarci sarà game over immediato, con ritorno all’ultimo checkpoint; tutto nella norma. Il gioco offre inoltre diverse soluzioni d’ingaggio, con nascondigli e vie secondarie, più indicatori audio-visivi per ricordarci se siamo individuabili o stiamo facendo casino.
Durante le prime battute di gioco si viene incoraggiati a centellinare le proprie mosse, a studiare i movimenti delle guardie e ad agire di conseguenza, ma, come in ogni stealth, dopo un po' si trova la quadra, e ci si rende conto di quanto l’IA in The Siege and the Sandfox sia inconsistente e a tratti completamente scassata. Nemici che ci vedono o ci sentono anche se siamo fuori dal loro raggio operativo, oppure si svegliano a tradimento nonostante non sia volata una mosca, o ancora rilevano telepaticamente che il loro “partner” dall’altra parte della mappa sia finito al tappeto; aggro non perso dopo interi minuti che siamo usciti dal loro campo visivo, percorsi di ronda che si rompono, gente che si incastra in scale e gradini, attacchi che fanno cilecca...
Questo costante senso di incertezza finisce per rovinare l’esperienza e porta il giocatore a ignorare sempre più l’elemento furtivo del gameplay, finendo per trattare qualunque minaccia come un Goomba da scavalcare con un salto, tanto non sono in grado di starci dietro e non c’è alcun incentivo a perdere tempo per fare le cose “a modo” (eccetto l’achievement per completare l’intera campagna senza mai farsi scoprire, ma ne faccio volentieri a meno). A maggior ragione quando si è impegnati a fare backtracking e si ronza intorno alle solite stanze numerose volte.
The Siege and the Sandfox - Level design intelligente, mappa un po' meno
Ci ho messo poco meno di 10 ore per portare a termine l’avventura e le occasioni in cui mi sono smarrito o sono dovuto tornare sui miei passi sono relativamente poche, a dispetto delle dimensioni enormi della mappa. Le varie regioni sono ben connesse, con trasporti rapidi nei punti di snodo e un sacco di scorciatoie per agevolare seconde tornate. La disposizione dei checkpoint non è omogenea, ma in media non si perdono troppi progressi in caso di errore. A dare qualche grattacapo invece è la natura verticale di molte aree, che obbligano a lunghe deviazioni per tornare in cima; ok la prima volta, un po’ seccante in quelle dopo.
Il level design dal canto suo è per la maggiore ben congegnato. Le prime ore sono davvero intuitive e guidano il giocatore in modo quasi impercettibile, senza negargli la possibilità di esplorare o di sperimentare con le (poche) opzioni a disposizione, per poi lasciarlo andare una volta finito il tour introduttivo e assimilate le basi per sopravvivere. Navigare il sottosuolo è piuttosto agevole e se siete avvezzi ai metroidvania non tarderete a capire dove e come muovervi, ma credo si sarebbe potuto lavorare un po’ di più sulla leggibilità della mappa. In primis “colorare” solo le porzioni dove si è effettivamente passati e non l’intero schermo inquadrato dalla telecamera, che spesso prende più piani e stanze a cui non si ha ancora accesso. In secondo luogo, togliere gli indicatori delle porte speciali già aperte tramite il relativo power-up e inserire invece quelle a tempo, in genere a senso unico, o i cancelli chiusi. Troppe volte mi sono domandato se avessi percorso o meno una certa via per poi ritrovarmi in un vicolo cieco.
The Siege and the Sandfox - Impatto visivo memorabile, qualche inciampo tecnico
Per quanto riguarda il profilo tecnico, The Siege and the Sandfox è visivamente impressionante. La veste grafica in pixel art è ricca di dettagli ed esaltata da effetti di luce che ne amplificano lo splendore, con fondali altrettanto elaborati e tanta cura per le animazioni, in particolare quelle della Sandfox. Il look arabeggiante è ricercato e gli ambienti distinti, con prestazioni solide; nulla è lasciato al caso. Ho giusto qualche riserva su alcune collisioni durante le acrobazie, discorso che si lega all’apparente incapacità del sistema di controllo di digerire più input contemporaneamente, e inoltre può capitare che chiavi e interruttori smettano di funzionare; si risolve ricaricando il salvataggio, ma è l’ennesima seccatura gratuita. Da segnalare poi un singolo crash.
Sul versante audio, l’intero cast è “doppiato” dalla suadente voce della narratrice, che fa del suo meglio per mantenere viva l’attenzione dello spettatore, cambiando tono a seconda dell’interlocutore, descrivendo le location, commentando l’azione e fornendo informazioni e suggerimenti in-game. Conferisce al tutto un tono quasi fiabesco, e abbiamo apprezzato lo sforzo, sebbene alle volte tenda a ripetersi o a tagliare le frasi, anche perché è l’unica compagnia che avremo nel corso del viaggio. Gli effetti sonori sono molto curati (il mix però è un pelo sballato), tuttavia la colonna sonora propende perlopiù per un sottofondo atmosferico; efficace, ma avrei preferito un pizzico in più di grinta, di stile, specie considerato il setting.
Una premessa interessante e una presentazione eccellente rendono The Siege and the Sandfox un pacchetto allettante ad un primo sguardo, e sono sicuro che con un paio di aggiornamenti mirati l’opera di Cardboard Sword può davvero ambire in alto, ma ci sono troppi spigoli da limare al momento. Controlli più docili e reattivi aiuterebbero la natura acrobatica della formula di gioco senza snaturarla, mentre un’IA più sveglia e meno rotta renderebbe le infiltrazioni di gran lunga più appassionanti, anche se a prescindere non siamo del tutto convinti della loro implementazione nel contesto. Ad ogni modo, se l’idea vi stuzzica, approcciate senza remore questo “stealthvania”, ma preparatevi a fare qualche compromesso.
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Capcom Fighting Collection 2: il calcio rotante che viene dal passato!
Se dico “picchiaduro” che titolo vi viene in mente? Non ho molti dubbi a riguardo: tantissimi di voi avranno sicuramente pensato a uno dei tanti videogame sfornati da Capcom, vera e propria istituzione dei giochi da combattimento e dopo aver giocato la prima collezione, eccoci qui per la nostra recensione di Capcom Fighting Collection 2! Il viaggio nel passato della software house giapponese questa volta ci presenta il ritorno di: Capcom vs. SNK: Millennium Fight 2000 Pro, Capcom vs. SNK 2: Mark of the Millennium 2001, Street Fighter Alpha 3 Upper, Capcom Fighting Evolution, Power Stone, Power Stone 2, Project Justice (sequel di Rival Schools) e Plasma Sword: Nightmare of Bilstein (sequel di Star Gladiator), otto titoli che, con più o meno gloria, sono usciti tra il 1998 (Plasma Sword: Nightmare of Bilstein) e il 2004 (Capcom Fighting Evolution). Continua, quindi, l’opera di recupero da parte di Capcom dei suoi vecchi titoli “da combattimento”, permettendoci di rimettere le mani su giochi su cui abbiamo già speso tantissime ore e conoscere meglio giochi che all'epoca non arrivarono nel nostro mercato, come Plasma World e Project Justice.
Purtroppo, non tutto brilla...
Come da copione, Capcom Fighting Collection 2 è fatto con tutti i crismi necessari per dare il giusto valore a questi titoli e potrete giocarli sia online che offline. Chiariamo subito che per quanto non ho avuto occasione di provare il netcode, per ognuno di questi è disponibile il rollback che dovrebbe limitare i fenomeni di lag, ma come detto non posso darvi informazioni specifiche, in quanto la mia prova è stata fatta a server spenti. Per quel che riguarda l'off line sono state messe in campo moltissime opzioni in grado di rendere godibili titoli con qualche anno sulle spalle, a partire di una completa traduzione italiana dei testi, magari non necessaria nei picchiaduro, ma sempre gradita. Dal punto di vista grafico, tutti i giochi rimangono ai nativi 4:3 (potrete giocare a schermo intero, ma solo con l’immagine “stretchata”) e per quanto non sia stata fatta una rimasterizzazione HD, sono presenti molti filtri che possono rendere l’esperienza di gioco più gradevole in base alle vostre preferenze, tra richiami alle vecchie linee dei monitor CRT o anti aliasing che va ad addolcire i cari vecchi pixel. Ad ogni modo, tra cornici e altri abbellimenti secondari, la fluidità di ogni titolo è al suo massimo, elemento importantissimo per il gameplay stesso di ogni picchiaduro. Presente anche il salvataggio rapido, qualora doveste bloccare una partita senza preavviso.
Qualsiasi titolo scegliate, il gameplay risulta riproposto fedelmente, ma è chiaro che per godere a pieno della maggior parte di questi titoli sarebbe il caso di avere un arcade stick, per quanto il classico controller permetta comunque una discreta esperienza. Detto questo, arcade stick o no, ogni gioco della Capcom Fighting Collection 2 fila liscio come l’olio e non ho notato problemi di sorta dal punto di vista della fluidità. Per gli amanti del collezionismo c’è anche una sezione “museo” dove vedere illustrazioni, vari video e ascoltare i brani della colonna sonora, in nome di un recupero di importanti pezzi della storia dei videogame.
Sono un giocatore semplice: datemi Vega e sarò felice!
Alcune perle non smettono di brillare
Andiamo adesso a esaminare più da vicino i giochi contenuti che, a dire la verità, offre diversi titoli interessanti, ma altri che mi hanno lasciato interdetto e aggiungo poco all’esperienza, se non elementi più che altro enciclopedici. Partiamo da Capcom vs. SNK: Millennium Fight 2000 Pro e Capcom vs. SNK 2: Mark of the Millennium 2001, due capisaldi dell’universo crossover dove i combattenti dei due famosi marchi, sebbene il mio cuore piange da più di vent’anni per la totale assenza di personaggi della saga World Heroes, ma con il tempo me ne sono fatto una ragione e non posso che elogiare questi due titoli, con il secondo che va a ampliare praticamente tutti gli elementi del primo e gode di un rooster di 44 personaggi più un sistema “grove” aperto che permette di assegnare dei punti di forza al proprio team: un vero caposaldo per gli amanti delle due software house.
Passiamo all’altra coppia, formata da Power Stone e Power Stone 2, dove ci si pesta di santa ragione in arene in tre dimensioni. Anche qui parliamo di due ottimi titoli, con il secondo che segna un importante salto di qualità e permette a un massimo di quattro giocatori portandolo ad essere quasi un party game, tra oggetti da raccogliere, power up e persino una modalità storia in stile RPG. Grafica coloratissima, cast vario, giocabilità fluida e divertimento assicurato per un titolo che porta una ventata d’aria fresca oggi come ieri. Un pezzo di storia che, effettivamente, merita di essere recuperato.
Street Fighter Alpha 3 Upper è uno dei migliori esponenti della saga degli “Alpha” ed è, appunto, l’edizione migliorata di Street Fighter Alpha 3 a cui aggiunge alcuni personaggi e diverse features, oltre a una migliore calibrazione delle mosse, senza contare che sino ad oggi era uscito unicamente in versione arcade o su Game Boy Advance, in una conversione che, per quanto fosse limitata, sapeva di miracolo. Una chicca: c’è persino una modalità per personalizzare le proprie combo!
Una spruzzata di Samurai Shadown fa sempre bene
Non tutte le mazzate escono col buco
Capcom Fighting Evolution invece, oggi come ieri non riesce a soddisfare. Possiamo formare team di due personaggi scegliendo da cinque titoli Capcom (Street Fighter II, Street Fighter Alpha, Street Fighter III, Darkstalkers e Red Earth), ognuno con il suo move set originale, fattore che finisce con il rovinare gli equilibri tra i contendenti con un bilanciamento che lascia molto a desiderare. Lo stesso comparto tecnico non soddisfa: molti elementi sono stati letteralmente riciclati dai titoli originali e l’impatto visivo in generale è piatto. Difficile capire come possa interessare a qualcuno, se non per puro senso enciclopedico.
Plasma Sword: Nightmare of Bilstein, seguito di Star Gladiator (mi chiedo che fine abbia fatto), è un picchiaduro futuristico in tre dimensioni con personaggi sicuramente molto originali e arrivati dagli angoli più disparati della galassia, ma con un sistema di combattimento poco ispirato e non molto tecnico. Gli stessi personaggi, ben 22, spesso si somigliano tra loro, tra mosse e animazioni che si ripetono un po’ troppo spesso. Qualche idea interessante e l’ambientazione innovativa non elevano Plasma Sword: Nightmare of Bilstein oltre la sufficienza.
Chiudiamo con Project Justice, seguito diretto del mitico Rival Schools e anche questa volta mi domando perché non sia presente il primo episodio della saga. Anzi, vista la qualità di Rival Schools, l’assenza è ben più pesante rispetto a quella di Star Gladiator. Ad ogni modo torniamo nell’affascinante mondo degli istituti scolastici giapponesi dove team di tre lottatori si sfidano grazie a stili di combattimento ispirati alle diverse attività che si possono trovare nelle scuole del paese del sol levante. Buon bilanciamento, stili molto diversi tra loro e persino una modalità storia intrigante, nel tentativo di sconfiggere una malvagia società guidata da Kurow Kirishima, un pericoloso ninja. Uno stile unico per un titolo che moltissimi di voi devono ancora scoprire, visto che all’epoca uscì soltanto per i Dreamcast giapponesi.
La saga di Power Stone merita di essere riscoperta
Per concludere, Capcom Fighting Collection 2 permette di recuperare molti titoli che difficilmente avete potuto giocare alla loro uscita, ma il livello qualitativo non è omogeneo. Ci sono, comunque, alcune perle imperdibili per chi ama i picchiaduro e apprezza il lavoro di Capcom e anche se il lavoro di recupero si limita a a una riproposizione fedele, ripulita e impreziosita da alcuni filtri, mentre il gameplay è riproposto in maniera quasi perfetta. Se vi è venuta voglia di fare un viaggio nel passato della storia dei picchiaduro, Capcom è pronta ad accendere ancora una volta la macchina del tempo!
Capcom Fighting Collection 2 offre una serie di picchiaduro storici della grande casa giapponese che tornano in edizioni estremamente fedeli al passato, con filtri che ne migliorano la fruibilità e alcuni extra. Rispetto al primo episodio, questa collection ha meno frecce al proprio arco, con alcuni titoli di gran spessore, ma altri che già all'epoca avevano fatto storcere qualche naso, senza contare che inserire il sequel del mitico Rival Schools senza dare modo di giocare il primo episodio, lascia interdetti. Ad ogni modo una produzione più che onesta, dove Power Stone 2 e Capcom vs. SNK 2: Mark of the Millennium 2001 sono due gemme da non perdere. Forse un impegno un po' basico, ma comunque indirizzato ai nostalgici.
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"TI sbatto a dirigere il traffico": recensione The Precint
Quando lo abbiamo provato per la prima volta in demo, ai tempi dello Steam Next Fest, confesso, mi aveva colpito particolarmente. Il GTA-like che non ricalcava la "rivoluzione" del terzo capitolo, in poi, ma che richiamava in modo più o meno diretto i primissimi titoli della serie Rockstar con la visuale isometrica. The Precint è ambientato nella città fittizia di Averno negli anni '80, un luogo dominato dal crimine e dalla corruzione. Il giocatore veste i panni di Nick Cordell Jr., un giovane poliziotto appena uscito dall'accademia, determinato a ripulire le strade e a scoprire la verità dietro la morte di suo padre, anch'egli poliziotto.
Dovrete tornare qui per compilare il rapporto.
La narrazione è ben strutturata, con una trama principale che si intreccia con numerose missioni secondarie, tra crimini e criminali da scoprire e una credibilità che dovrà crescere all'interno del distretto. Quest'ultima non è sviluppata in modo da essere molto elaborata o intrigante e curiosamente nonostante abbia una decente interpretazione attoriale-vocale, sceglie di non creare un legame particolarmente forte con l'osservatore, come se la storia fosse secondaria e che tutto sia solamente relegato alla funzione di collante per il solo gameplay… pratica curiosa, ma andiamo a vedere come quest'ultimo si comporta.
Luci (al neon) e ombre: gameplay e grafica di The Precint
Il giocatore può scegliere tra diverse attività, come pattugliare le strade, rispondere a chiamate di emergenza, e investigare su crimini. Le meccaniche di gioco includono la possibilità di interrogare sospetti, raccogliere prove e partecipare a inseguimenti ad alta velocità sulle strade o perché non farlo direttamente in elicottero?
La scelta grafica fa uso di una palette cromatica che richiama l'estetica neon-noir degli anni '80. I modelli dei personaggi e dei veicoli sono dettagliati, e l'illuminazione dinamica contribuisce a dare all'osservatore l'idea di scelte di design e di una produzione di livello medio; in tutto questo c'è da dire che su PS5 Pro, dove ho avuto modo di giocarlo, confermo sia la qualità estetica complessiva, sia la fluidità del gameplay. Le texture sono di alta qualità, e il motore grafico gestisce bene gli effetti di luce e ombra, anche nelle scene più complesse. Ciò che però emerge piuttosto in fretta è la fastidiosissima scelta di una legnosità che va ad "incastrare" l'azione in svariate situazioni, oltre ad un level design farraginoso.
Le fasi di shooting sono noiosissime e mal ottimizzate.
Per ogni situazioni in cui dobbiamo parlare con qualcuno o semplicemente dare una multa, si aprono un ventaglio infinito di (inutili) possibilità. Se ci sono scontri a fuoco muovere il cursore per sparare ai nemici è una cosa che nemmeno si faceva negli anni '90 e poi perché dover andare a cercare la cassa con le munizioni negli ambienti chiusi o cercarle nel bagagliaio mentre siamo all'aperto? Perfino il viaggio in elicottero funziona poco, con la stessa rigidità dei comandi che trasforma un intrigante inseguimento in un noioso movimento sulla mappa. Si salva la guida dei mezzi, ma anche qui c'è da aprire mille parentesi.
L'auto derapa in modo (poco) controllato, con i nemici che dobbiamo inseguirli per mezza mappa, magari sparargli, ma con meccaniche poco funzionali di Handling e feeling di guida tale per cui anche questa esperienza diventa frustrante o poco divertente. Tra l'altro dobbiamo evitare i pedoni, giustamente, e loro non fanno altro che tentare di suicidarsi gettandosi sotto la nostra auto o altri comportamenti assurdi anche da parte dei nemici che risultano programmati in modo elementare e poco convincente.
Peccato, un grosso peccato e un'occasione persa. Qualcosa di buono si salva, la "patina" superficiale di questo gioco è piacevole, ma appena rimossa questa si rivela un gioco programmato in modo frettoloso, con pessime animazioni, un level design abbozzato e in generale poco coinvolgente.
The Precint è un po' una delusione, anche se sopravvive con la sufficienza. Esteticamente gradevole, non del tutto fallimentare, ma in generale banale sia come modo di essere giocato, sia come è stato concepito. Un indie game povero di idee e programmato in modo superficiale, ma travestito con una grafica piacevole che ne nasconde le magagne. Non è brutto del tutto, ma difficilmente verrà ricordato.
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Age of Empires II: Definitive Edition, il mito della strategia arriva su PS5!
Miei cari vassalli, valvassori e valvassini, preparatevi a pagare le decime e a lucidare la vostra vecchia corazza, perché siete qui per leggere la nostra recensione di Age of Empires II: Definitive Edition nella sua edizione per PlayStation 5. Il pluripremiato strategico in tempo reale, di ambientazione medievale, fa parte della lista di titoli che da essere esclusiva Microsoft stanno colonizzando PlayStation 5 con crescente successo. Uscito per la prima volta nel 1999 su PC e ritornato in Definitive Edition grazie a una sontuosa rimasterizzazione nel 2019, Age of Empires II, proprio in quest'ultima versione, si è affacciato nel 2023 al mondo console su Xbox, ed è questa sua incarnazione ad essere stata portata sulla ammiraglia Sony.
L’idea di base è quella per cui si deve gestire la propria fazione dal punto di vista della raccolta delle risorse, della costruzione di edifici e infrastrutture e, naturalmente, sul campo di battaglia. Il sistema, oggi come all’epoca, è idealmente semplice, ma estremamente variegato nella realtà dei fatti: sulle mappe ci sono legna, cibo, pietra e oro da raccogliere e dovremo gestire al meglio le nostre risorse per espanderci, aumentare la popolazione e diventare sempre più forti sia economicamente che militarmente.
Tutto, o quasi, è iniziato qui
Sia che abbia giocato a Age of Empires II su PC all’epoca, sia che siate neofiti, un bel ripasso tramite il tutorial (dedicato alla storia di William Wallace) è ampiamente consigliato, soprattutto per apprendere le meccaniche di gioco legate all’utilizzo del controller, per quanto nulla vieta di armarsi di mouse e tastiera. Come già aveva mostrato l’edizione Xbox,il lavoro svolto da Tantalus Media è davvero buono e riesce a rendere il titolo estremamente accessibile anche su una piattaforma che, storicamente, continua a risultare ostica per la strategia in tempo reale. Con un sapiente utilizzo dei tasti dorsali e dei grilletti, combinati con tutti gli altri pulsanti e le leve analogiche, Age of Empires II: Definitive Edition risulta ben giocabile dopo un breve periodo di rodaggio, con alcune scelte che si rivelano (ancora una volta) vincenti.
Tra tutte segnalo la possibilità di dare una preferenza ai nostri cittadini riguardo alla raccolta delle risorse: potremmo indicare di dedicarsi a una singola tipologia, ma anche di gestirsi in tutta autonomia a una raccolta omogenea, opzione che ho trovato davvero comoda, a dimostrazione che ci sono team di sviluppo capaci di trovare soluzioni che non si limitano a risolvere problemi, ma riescono anche a rendere più agevole il gameplay. C’è poi la possibilità di creare gruppi di lavoro e gestirli in pochissimi passaggi, altra opzione che rende più immediato Age of Empires II: Definitive Edition il tutto, anche in questo caso, con pochi colpi di controller. Una piccola delusione arriva dal fatto che sia stata fatta una conversione “uno a uno” dalla edizione Xbox, mentre con uno sviluppo più specifico, magari si sarebbe potuto utilizzare il touch del Dual Sense, ma la resa risulta comunque soddisfacente.
Le missioni sono varie e vivremo svariate situazioni
Age of Empires II: Definitive Edition, quanto si sente il peso degli anni?
Controller o non controller, il gameplay è, oggi come ieri, estremamente profondo e lascia ampio spazio alle capacità strategiche e gestionali del giocatore, imponendogli di reagire in maniera rapida agli avvenimenti della partita, premiando sia la ragionata programmazione sia la capacità di trovare rapide soluzioni alle sortite nemiche, tra riallocazioni della forza lavoro e la gestione delle truppe. Se, come già detto, il tutorial è utile per muovere i primi passi, seguendo le varie campagne a disposizione si ha modo di affinare il proprio stile e apprendere ogni elemento di gioco. L’offerta ludica è semplicemente enorme, sia che si voglia giocare da solo che si sia alla ricerca di una sfida in multiplayer. Le civiltà a disposizione sono più di quaranta e presentano diverse peculiarità che possiamo sperimentare nelle schermaglie (partite veloci) e nel multiplayer che, oltre ad aver funzionato più che egregiamente nelle mie prove, permette il cross play.
Questa edizione di Age of Empires II contiene una enorme quantità di contenuti per giocare da soli, con decine di campagne che vanno ad abbracciare svariate situazioni storiche e ci faranno viaggiare per i quattro angoli del mondo. Il titolo è disponibile in due edizioni, la standard (39,99 euro) e la premium (59,99 euro) e se l’edizione base contiene tre campagne aggiuntive (Lords of the West, Dynasties of India e Dawn of the Dukes), la seconda amplia ancora di più i contenuti, dove, tra le altre, spiccano la campagna dedicata all’antica Grecia, quella nella vecchia Roma e quella che ci porta nella Cine dei Tre Regni. Insomma, in ogni caso tantissime ore da giocare.
C'è davvero l'imbarazzo della scelta!
Certo, non tutto è perfetto a partire da alcuni difetti nel pathfinding che, a dirla tutta, Age of Empires II si porta dietro sin dalla primissima uscita. Per chi non lo sapesse, con pathfinding si intende il percorso scelto dall’intelligenza artificiale quando le si ordina di spostare una truppa da un punto all’altro. Intendiamoci, non sto parlando di problemi insormontabili, ma di alcune imperfezioni che, talvolta, rendono l’azione poco fluida, con qualche imprecisione di troppo. Per quanto la grafica sia figlia di un rilevante processo di rimasterizzazione, rimangono alcuni elementi che mostrano chiaramente i 25 anni sulle spalle del prodotto originale. I menù sono spesso imprecisi, con le scritte che vanno a uscire dai bordi delle caselle che dovrebbero contenerli e la minimappa (allargabile se necessario) mantiene uno stile davvero troppo “retro”, per quanto funzionale. Ambientazioni, edifici e unità hanno ricevuto una rimasterizzazione di tutto rispetto, per quanto la base sia quella del lavoro di recupero fatto nel 2019, ma tutto il comparto tecnico, compreso il sonoro, regge ancora nonostante i tanti anni sulle spalle.
Age of Empires II: Definitive Edition arriva su PlayStation 5 a ricordarci come un capolavoro, per quanto possa passare il tempo, rimane divertente e giocabile nonostante qualche ruga capace di sfuggire anche al più attento trattamento di bellezza. Sicuramente negli ultimi anni sono usciti altri RTS con grafiche migliori e gameplay più moderni, ma Age of Empires II: Definitive Edition ci ricorda che la classe non è acqua. Se non avete mai potuto giocare a questa pietra miliare della strategia in tempo reale o volete compiere un tuffo nel passato, anche la vostra PlayStation 5 può finalmente godere del glorioso Age of Empires II!
Ci sono tante campagne, compresa quella dedicata a i Tre Regni
Saranno anche passati 25 anni, ma Age of Empires II non ha perso un colpo. Anzi, questa Definitive Edition gode di una quantità enorme di contenuti , capaci di intrattenere per un numero incalcolabile di ore, tra partite un singolo e multiplayer. Già l'arrivo su Xbox aveva mostrato la bontà della conversione su console e un utilizzo soddisfacente del controller, situazione che si ripropone su PlayStation 5 senza particolari intoppi. Certo, dal punto di vista tecnico, nonostante l'opera di svecchiamento, si sente il peso degli anni, ci sono alcune imprecisioni nei menù e nel pathfinding, ma la resa finale continua a essere quella di un RTS profondo, sfidante e completo, capace di superare le barriere del tempo per continuare a trasformare ognuno di noi in un impavido e sagace condottiero.
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L'annuncio di DOOM: The Dark Ages ha suscitato l’interesse che ci si poteva aspettare, infiammando gli animi degli appassionati con la premessa non semplicemente di un nuovo capitolo pronto a riproporre una formula consolidata, bensì come un punto di rottura - una reinterpretazione dei principi fondamentali della saga senza per questo dimenticare le proprie radici. Il gioco in arrivo è infatti un prequel, ambientato in un’era primordiale del perenne conflitto contro le entità infernali, una scelta tutt’altro che casuale ma anzi volta ad andare a fornire un contesto narrativo per la genesi di un personaggio leggendario come lo Slayer, esplorando le prime fasi di una crociata senza fine e le circostanze che l’hanno portato a essere il macellaio silenzioso che conosciamo. Naturalmente, a questo spaccato narrativo si affianca un’esperienza ludica audace, che pur mantenendo salde l’intensità e la brutalità intrinseche della saga, punta a nuove direzioni in termini di ambientazioni e meccaniche. Ci siamo immersi in questo bagno di furia e sangue per ore ed ore, uscendone decisamente soddisfatti nei confronti di un capitolo che segna un nuovo approccio ai massacri di orde demoniache accompagnati come sempre da una colonna sonora unica.
Tra combattimenti all’ultimo proiettile, mappe più o meno vaste, draghi da cavalcare per portare ancora più caos e distruzione nonché, sempre nell’ordine delle novità, mecha pronti a picchiare ancora più duro dello Slayer stesso e metterci a confronto con veri e propri giganti demoniaci, DOOM: The Dark Ages si è rivelato un azzardo assolutamente riuscito.
L’era più cupa di un eterno conflitto: la trama di DOOM: The Dark Ages
Partiamo dal contesto narrativo, del quale vi riveleremo il poco che basta a darvi un’idea degli accadimenti. Se è pur vero che nessuno gioca a DOOM per la trama, è un elemento portante dell’esperienza e come tale va vissuto. Lo Slayer è, come ben sappiamo, una macchina da guerra; un uomo, se tale concetto gli può essere associato, la cui furia riesce a soverchiare qualsiasi forza provi a opporglisi. Le Sentinelle, nonostante ne siano spaventate, riconoscono una simile sete di sangue un’arma efficace contro le legioni infernali che non danno loro tregue; similmente, i Maykr vedono in lui nientemeno che un ricettacolo della loro volontà divina, tanto da infondere nella sua carne una potenza celestiale e legare la sua anima ai loro piani cosmici. Una decisione che, pur nel suo calcolo, non ha davvero tenuto conto di quanto sia schiacciante la sete di sangue demoniaco dello Slayer, una vendetta personificata che chiunque a questo punto teme di controllare, incerto sulle conseguenze.
In questo prequel vediamo lo Slayer assoggettato ai Maykr, tenuto sotto controllo da un dispositivo impiantato all’altezza del cuore. Chiuso entro un campo di forza finché non viene richiesta la sua presenza sul campo di battaglia, è il perenne ago della bilancia che volge le altrimenti segnate sorti delle Sentinelle ogni qualvolta viene inviato sul posto. C’è dunque una sorta di accordo tra esse e i Maykr, venerati in quanto divinità, nonostante si avverta una certa riluttanza da parte del neo nominato vescovo del ministero Kreed Maykr nell’uso dello Slayer per questioni che potrebbero ai suoi occhi essere triviali. Nondimeno, il trasferimento continuo dell’energia delle Sentinelle verso il mondo natale dei Mayrk rimane di fondamentale importanza e per nessun motivo questa trasmissione dev’essere interrotta. Battaglia dopo battaglia, dunque, lo Slayer viene chiamato ad aiutare le Sentinelle, nonostante giocando si possa vedere benissimo come questi stessi combattenti che deve (o dovrebbe) aiutare possono rappresentare un intralcio alla sua furia a stento contenuta.
Più combatte, più la sua sete di sangue lo rende prono alla ribellione verso la costrizione nella quale si trova, rendendo difficile capire cosa potrebbe succedere ai delicati equilibri tra Maykr e Sentinelle qualora lo Slayer dovesse spezzare le catene. In questo scenario di conflitto non manca ovviamente la figura dell’antagonista principale, nei panni del principe Ahzrak - un giovane demone che contrariamente ai suoi simili non trema al cospetto dello Slayer. Ha un obiettivo e non si fermerà davanti a niente per raggiungerlo, nemmeno a una bestia sotto spoglie umane pronta a trattarlo non diversamente da qualsiasi altro demone.
Come accennato, la storia non è certo il punto cardine della serie DOOM, tuttavia la decisione di rendere questo nuovo capitolo un prequel narrativo ha la sua importanza: il ritorno a tempi remoti per esplorare la genesi di una leggenda quale lo Slayer fondendo la fantascienza al dark fantasy e ponendo tutto in un contesto medievale influenza ogni aspetto del gioco, non soltanto la sua lodevole presentazione estetica. Dal level al monster design, passando in modo particolare per un arsenale che valorizza il concetto di “Stand and Fight” di cui parleremo nel dettaglio a breve, la rappresentazione di uno Slayer in un’epoca tanto remota conferisce all’esperienza ancora più brutalità e fascino di quanto già non abbia avuto fino a questo momento.
Questa commistione stilistica si manifesta in scenari che combinano imponenti fortezze di pietra e strutture fortificate tipiche dell'architettura medievale con inserti di tecnologie fantascientifiche, spesso corrotte dall’influenza demoniaca: portali di vario genere, armi d’assedio, veri e propri nidi di sangue, insomma chi più ne ha metta. I nemici, lungi dall'essere “semplici” demoni, sono una infernale fusione di carne e innesti meccanici, quando non rivestiti più o meno completamente di armature da fare a pezzi per esporli. Qualunque combinazione vi venga in mente, non è escluso che DOOM: The Dark Ages possa vantarla nel bestiario, sebbene la maggioranza dei nemici tenda ad avere una forma umanoide a diversi livelli di grottesco. L'atmosfera generale restituisce in modo palpabile una violenza primordiale, ulteriormente amplificata proprio dalla commistione di futuro e passato che permette tanto allo Slayer quanto alle orde demoniache di liberare tutta la loro furia in un mondo che diventa lo scenario per eccellenza di un massacro senza precedenti.
"Stand and Fight": la rivoluzione di una filosofia storica in DOOM: The Dark Ages
Prima di entrare nel vivo del gioco, una piccola digressione sulla personalizzazione della difficoltà, aspetto sul quale ID Software si è dedicata in modo particolare. Non c’è nulla che in DOOM: The Dark Ages non si possa modificare, quando si imposta il livello di difficoltà. Per la recensione si è deciso di testare la modalità Normale (Fatemi male) senza toccare le varie opzioni ma sappiate che sono tante, tutte pensate per avvantaggiarvi o gettarvi nel caos più totale se avete una propensione al masochismo: dagli aiuti in combattimento che possono variare la finestra di parata dello scudo, rendendola più o meno generosa, si passa a veri e propri modificatori che permettono di alterare i danni al giocatore e ai demoni, il livello di aggressività dei nemici, la velocità di gioco e la durata dello stordimento, fino al valore stesso delle risorse che più sarà alto e più renderà la gestione di queste ultime vitale. Immaginiamo di combinare tutte queste possibilità, in positivo o negativo, con i livelli di difficoltà proibitivi dove la partita può terminare alla prima morte dello Slayer e va da sé fino a che punto i giocatori soprattutto più navigati possono mettersi alla prova. Similmente, chi è alle prime armi con la serie o con il genere nel complesso potrà optare per una difficoltà nella media ma mitigata in alcuni suoi aspetti, che in qualsiasi momento si possono ritarare.
Detto questo, senza dubbio l'innovazione più significativa e distintiva di DOOM: The Dark Ages risiede nella sua filosofia di combattimento. Distanziandosi parzialmente dall'enfasi preponderante sul movimento costante (run and gun in DOOM 2016 e jump and shoot in DOOM Eternal), il titolo introduce il concetto di "stand and fight". A dispetto del nome, non aspettatevi una decelerazione o staticità dell'azione, anzi; l'intento, riuscito, è piuttosto quello di potenziare la capacità del giocatore di resistere e contrattaccare efficacemente nel cuore delle schiere demoniache, riducendo la necessità di manovre evasive e riposizionamenti costanti. Questo cambio di paradigma mira a rendere gli scontri più diretti e a premiare la gestione aggressiva della pressione nemica, come presto comprenderete giocando.
Da persona che predilige la meccanica della deflessione ed è sempre entusiasta quando la vede implementata in un gameplay, non nego le mie perplessità iniziali su come questa si sarebbe potuta adattare bene al contesto offensivo del gioco, pur al netto della spiegazione del nuovo approccio adottato dallo studio di sviluppo. Solo quando l’ho provata con mano mi sono effettivamente resa conto di quanto fine sia stato il lavoro per inserire, e in generale valorizzare, l’utilizzo delle armi bianche in una serie ben nota per spingere al movimento e al riposizionamento costante. Qui, al contrario, pur non essendo obbligatorio, mantenere la posizione rende tutto non solo più caotico e divertente ma soprattutto impegnativo perché si traduce in una visione ancora più d’insieme dei pericoli circostanti, nonché nella capacità strategica del giocatore quando si tratta di gestire una serie di attacchi tutti diversi in arrivo e dei rispettivi tempi. Ci sono colpi, fisici ma anche energetici, che lo Slayer può deflettere e altri che invece può solo parare senza averne alcun effettivo ritorno. Se nei primi degli oltre venti livelli che compongono il gioco potrebbe sembrare quasi facile gestire le orde che cercano di farci la pelle, a mano a mano che vengono introdotti nemici sempre più elaborati e resistenti, inizialmente sotto forma di boss poi come avversari comuni, tutto si trasforma in un continuo calcolo di cosa fare, come e soprattutto quando per trarne quanto più vantaggio.
Protagonista fondamentale del concetto di “stand and fight” è la prima fra le tante nuove armi in dotazione allo Slayer: lo scudo e la sega che presto gli viene implementata fino a rendere l’arma nella sua interezza, indovinate un po’, una sega scudo. Come potete immaginare, non siamo di fronte a un semplice strumento difensivo passivo, bensì a un'arma polivalente e dinamica. Lo scudo può essere impiegato per deflettere gli attacchi nemici, un'azione che, se eseguita con precisione può trasformare un momento di potenziale vulnerabilità in un'opportunità offensiva grazie ai numerosi benefici del caso - dallo stordimento dei nemici fino all’ottenimento di risorse o alla ricarica più rapida delle abilità corpo a corpo. La deflessione, o parry come lo si chiama abitualmente, introduce un elemento ritmico e strategico nel flusso del combattimento, elevando la difesa a opportunità offensiva a ogni pie’ sospinto. Se tuttavia pensate che si riduca a essere uno strumento da contatto ravvicinato, siete in errore: per non farsi mancare nulla, lo Slayer può lanciare lo scudo per fendere dalla distanza le linee nemiche e, grazie alla sega integrata, falciarli con maggior efficacia. Non solo, ottimizzato dai potenziamenti che possiamo acquistare a degli specifici altari, la presenza della sega aggiunge un ulteriore valore strategico perché pur non potendo eliminare sul colpo alcuni nemici élite, può bloccarli sul posto dandoci la facoltà di crivellarli di colpi (o farli saltare con uno ben piazzato a distanza ravvicinato se parliamo dell’iconica doppietta).
E davvero non finisce qui, perché i nemici stessi sono stati pensati per elevare gli utilizzi strategici dello scudo: prendiamo ad esempio i demoni che impugnano uno scudo a torre, di metallo o al plasma. A seconda della tipologia ci sono almeno due possibili approcci diretti. Nel primo caso, lo scudo deve essere surriscaldato a colpi di arma da fuoco affinché, lanciando poi il nostro, venga fatto a pezzi e con esso la creatura che lo imbracciava, permettendoci nel frattempo di ottenere frammenti di corazza. Tutto qui? No, perché la distruzione di un nemico armato di scudo provoca un effetto a catena per il quale anche tutti gli eventuali altri nemici dello stesso tipo vengono smembrati - in genere li si trova disposti in lunghe file orizzontali). Per quanto riguarda invece gli scudi al plasma, potremmo utilizzare un’arma chiamata Acceleratore, che li fa esplodere dopo qualche colpo e va a danneggiare chiunque sia nei paraggi di questa detonazione; oppure, sempre usando il nostro fido scudo, possiamo sfruttare il potenziamento del rimbalzo per far sì che una volta a contatto con gli scudi al plasma questi non solo siano distrutti e con essi il demone, ma provochino un effetto rimpiattino per il quale il nostro scudo schizzerà verso i demoni più vicini per farli a pezzi o infliggere danni se si tratta di creature più evolute. Insomma, capite anche voi la quantità di possibilità e approcci, di cui vi ho descritto giusto una minima parte, che un simile approccio porta con sé: si va a intensificare ulteriormente la natura degli scontri, rendendoli sì più impegnativi eppure al contempo molto gratificanti, richiedendo ai giocatori di padroneggiare non solo il posizionamento e la gestione delle armi, ma anche il tempismo in un utilizzo parimenti difensivo e aggressivo dello scudo.
“Stand and fight” è senza dubbio una scelta che non ci si sarebbe mai aspettati nei confronti di un gioco simile, eppure con DOOM: The Dark Ages è stato dimostrato come anche una serie più votata al dinamismo assoluto possa fare un passo indietro e trovare un’evoluzione differente, non per questo meno funzionale, dei propri principi fondamentali. Il tutto senza togliere nulla anche all’esplorazione e all’attraversamento delle diverse aree, per le quali lo scudo si rende ancora una volta un compagno fondamentale. Solo ID Software poteva essere così folle da quasi stravolgere una saga storica per introdurre vere e proprie meccaniche brawler (perché al netto del tempismo, qui il parry non è certo un esercizio di finezza, solo una brutalità un po’ più elegante), forte anche di alcune novità lato lotta corpo a corpo, eppure questo azzardo si è rivelato ottimamente gestito e altrettanto appagante.
Passato e futuro in DOOM: The Dark Ages: un arsenale ibrido
L'arsenale a disposizione riflette in maniera congrua l'ambientazione ibrida del gioco, combinando armi riconoscibili con nuove e brutali aggiunte. Accanto alla Doppietta (presentata con un'estetica rinnovata che si integra al tema medievale), troviamo armi del tutto inedite chiaramente ispirate a un dark fantasy medievale: dal Razziatore , che concentra una pioggia di frammenti ossei a rosata ristretta e aumenta la sua cadenza di fuoco nel tempo, abbiamo un più lento ma non meno efficace Impalatore che, sulla falsariga di un fucile da cecchino, infligge danni molto elevati con bonus significativi per i colpi alla testa. Il Distruttore a catena è un’altra aggiunta interessante, poiché spara un nucleo sferito che infligge danni al contatto prima di essere richiamato all’interno dell’arma. Ciascuna di quelle citate, così come delle altre per cui vi lascio il piacere della scoperta, ha una variante più potente e a volte proprio diversa in termini di approccio che concorre a espandere ancora di più l’arsenale dello Slayer per continuare il nostro massacro indisturbati.
La ruota delle armi ci permette di scegliere con comodità il gruppo di armi da adottare, rallentando un poco il tempo, e quando stiamo equipaggiando un’arma possiamo passare alla sua variante premendo quadrato (su PlayStation): in questo modo le armi utilizzabili prima di selezionarne altre dalla ruota sono ben quattro, ciascuna con le proprie logiche e utilità sulla corta, media o lunga distanza. Tra queste, non dimentichiamoci assolutamente il Flagello, una tra le possibili dotazioni corpo a corpo dello Slayer e che, esattamente come il Guanto del Flagello che adottiamo all’inizio del gioco, può consumare fino a tre cariche per eseguire combo in mischia devastanti. Ciascuna di queste armi ha i suoi vantaggi, che si amplificano ulteriormente con l’acquisto dei rispettivi potenziamenti, e in base al vostro stile di gioco una può rivelarsi più efficace dell’altra - nonostante, va detto, nessuna è mai davvero messa da parte. Questa combinazione di estetica e funzionalità preserva l'identità distintiva della serie per quanto riguarda il concetto di armi potenti e iconiche, reinterpretandola però in un contesto inaspettato, dove ognuna è forgiata per il massimo impatto distruttivo.
L'accento sul combattimento corpo a corpo è ulteriormente valorizzato da un sistema di Glory Kill evoluto: sono adesso meno rigidamente predefinite e più integrate nel dinamismo dell'azione, una scelta che potrebbe far storcere il naso per via della minore spettacolarità ma al contempo un compromesso dovuto per non dare una battuta d’arresto al succitato dinamismo. Inoltre, non sempre garantiscono l’eliminazione istantanea del nemico, andando però a indebolirlo così da depotenziarne l’impatto offensivo. Prendiamo per esempio il Cavaliere Pinky: il nome indica rettili quadrupedi dotati di corna e impiegati come cavalcature dai demoni arcieri. Finché questi ultimi restano loro in groppa, saremo di continuo bersagliati da colpi dalla distanza, alcuni dei quali comodi da deflettere ma comunque fastidiosi quando ci si trova in situazioni concitate (cioè sempre).
Indebolendoli abbastanza si può generare una Glory Kill che va a disfarsi dell’arciere per lasciare solo la cavalcatura, nettamente meno problematica da abbattere dati i suoi attacchi più a corto raggio. Ancora, nel caso dei Cyberdemoni, giusto per citare quella fusione di carne e macchina menzionata in precedenza, la prima Glory Kill va a privarli dell’armatura sul lato sinistro, rendendoli di fatto più vulnerabili e gestibili. Se dunque si potrebbe lamentare una minor spettacolarità nelle uccisioni, riservata invece ai boss, è comprensibile la decisione se la si guarda nell’ottica della frenesia che caratterizza ogni combattimento. Non solo, il fatto che le Glory Kill, indipendentemente che uccidano sul colpo o meno, permettano di recuperare salute, munizioni o armatura le configura come un ulteriore strumento tattico, da impiegare con un certo grado di strategia per il recupero di risorse anziché relegarle a semplici animazioni di finitura.
Concludiamo la parte dedicata all’arsenale, dallo scudo alle armi da fuoco e corpo a corpo, parlando dei potenziamenti. DOOM: The Dark Ages valorizza l’esplorazione inserendo nelle proprie mappe una serie di risorse da spendere per perfezionare la nostra dotazione: oro, rubini e pietre dei Wraith sono mezzi essenziali per sbloccare, agli Altari delle Sentinelle, le abilità che riteniamo migliori per le nostre armi in base allo stile di gioco. Ripulire da cima a fondo un livello è fortemente consigliato, perché con il progredire dei livelli la complessità degli scontri aumenta ed è bene farsi trovare preparati: possiamo decidere in autonomia dove e come spendere queste risorse, per quanto mi riguarda ho deciso di dare priorità allo scudo e non me ne sono pentita, considerata la sua versatilità, ma non c’è limite a come spendere quello che recuperate sul campo.
Ciascun livello ha un numero di risorse predefinito, per questo è importante esplorarli da cima a fondo, soprattutto a mano a mano che l’arsenale viene migliorato, perché ogni nuovo potenziamento richiederà anche più unità di rubini o pietre - gli elementi più rari da ottenere. Sì all’azione, dunque, ma ci deve anche essere del tempo per ribaltare la mappa da cima a fondo e capire dove si trovano le varie risorse; non preoccupatevi se mancate qualcosa, tutti i livelli sono rigiocabili una volta terminati e mantengono la progressione, perciò ci si può concentrare solo su quello che manca senza preoccuparsi del resto. Ciò detto, però, non ho trovato molto piacevole il fatto che in certi punti il gioco tagli fuori dal backtracking se si avanza un poco lungo il percorso principale. Alcuni di questi blocchi li si può intuire o sono direttamente segnati sulla mappa da un’icona di uscita, che indica il non ritorno nella zona che stiamo per abbandonare, ma in altri casi non è così prevedibile e per qualche passo in più ci si può ritrovare totalmente tagliati fuori dal percorso precedente. Molto importante, dunque, muoversi con cautela e far sì di aver trovato tutto il possibile prima di azzardarsi a procedere. Avendo la mappa dell’area completa fin dall’inizio, è semplice fare questo genere di calcolo purché ci si ricordi.
Un ulteriore modo di ottenere risorse è completare le sfide proprie di ogni livello, che permettono di ottenere oro o rubini oltre a quelli di base presenti nel livello stesso. Sono un'ulteriore incentivo a interagire con e nel combattimento magari in modi diversi dal solito, sebbene va detto che non tutte le sfide sono chiarissime da capire o comode da fare - il che implica dover rigiocare il livello se vogliamo il nostro bel 100%. Il lato positivo è che, proprio come i collezionabili, anche la progressione delle sfide viene memorizzata dal sistema permettendoci eventualmente di portarle a termine con tutta calma.
Tra mecha e draghi, tanta (troppa) epicità
Sull’onda dell’epicità, una delle integrazioni più notevoli e visivamente impattanti è rappresentata dall'introduzione di sequenze di gioco in cui lo Slayer può assumere il controllo di un imponente Atlan mech o cavalcare un Drago. Questi momenti sono pensati per variare significativamente il ritmo e la scala degli scontri, consentendo di confrontarsi con avversari di proporzioni colossali e ingaggiare combattimenti aerei. L'Atlan, serve per fendere le linee nemiche incuranti di chi travolgiamo nel percorso e affrontare ad armi pari i titani che compongono le linee nemiche: sono sequenze piuttosto scriptate, nel senso che l’Atlan può colpire principalmente a pugni, caricando un indicatore per ogni colpo dato o schivata perfetta effettuata fino a scatenare, a carica piena, due diversi tipi di attacchi che fanno a pezzi anche il più coriaceo dei titani. Occasionalmente, quando il gioco lo decide, all’Atlan può essere affidata un’arma da fuoco la cui efficacia dipende dalle schivate perfette eseguite: per ciascuna, l’arma libera tutta la sua potenza permettendo di sbarazzarsi più in fretta. Queste situazioni sono però decise dal gioco, in genere ci muoviamo privi di armi che non siano i nostri seppur efficaci pugni (al più il pestone quando l’indicatore è pieno).
Il Drago, di contro, permette combattimenti aerei ad alta velocità e spostamenti rapidi attraverso aree estese, introducendo una dimensione verticale e una libertà di movimento inedite per la serie. Viene utilizzato quando dobbiamo distruggere vere e proprie navi da guerra o, anche qui, sbarazzarci dei titani lungo la strada, così come di vari ostacoli dalle dimensioni fin troppo fuori scala per essere alla portata dello Slayer. Il Drago può schivare, andare in elevazione oppure in picchiata, così come sparare dalla mitragliatrice controllata dallo Slayer e aumentare la propria velocità per inseguire le navicelle nemiche. Inoltre, dispone di una modalità assalto che lo porta ad agganciare un bersaglio vicino e far fuotare i propri movimenti attorno ad esso: questo approccio si utilizza quando si devono distruggere le navi infernali o altri obiettivi mirati.
Sebbene queste aggiunte vadano ad accrescere la varietà del gameplay e amplificare il senso di potenza e distruzione che costituisce un tratto distintivo di DOOM, proiettando lo Slayer in scenari di conflitto su scala epica, non le ho trovate sezioni particolarmente interessanti, soprattutto quelle con il drago. Epicità a parte, ed è forse il motivo che ha portato a una simile decisione, non trasmettono davvero quel senso di sete di sangue e distruzione che contraddistinguono lo Slayer per sé e, anzi, a mio avviso danno una battuta d’arresto al tutto obbligando a momenti non proprio coinvolgenti. Dell’intero pacchetto di novità, trovo entrambe queste soluzioni le più deboli.
Muscoli tecnici all’opera
Sotto il profilo tecnico, l'adozione dell'ultima versione dell'idTech Engine (idTech 8) assicura un impatto visivo di rilievo, con un elevato livello di dettaglio, effetti particellari spettacolari e un'ottimizzazione volta a mantenere un frame rate elevato nonché stabile, aspetto cruciale per l'azione frenetica tipica della serie. Il supporto per HDR e Ray Tracing contribuisce ulteriormente all'immersione nel mondo di gioco, rendendo ambienti e nemici ancora più vividi e d’impatto. Il connubio di questa eccellenza estetica e la fluidità assicurata persino nelle situazioni più concitate, dove decine di nemici e proiettili affollano lo schermo, rende DOOM: The Dark Ages un’esperienza intrinsecamente viscerale, immediata nelle reazioni e straordinariamente soddisfacente nel suo elevato tasso di adrenalina.
Parallelamente alla potenza tecnica, concludo sottolineando ancora una volta l’alto livello di personalizzazione dell’esperienza. La facoltà di modulare diversi parametri di gioco tramite slider dedicati rappresenta un passo significativo per consentire a un pubblico più ampio di adattare il gioco alle proprie esigenze e preferenze, superando potenziali barriere legate a tempi di reazione, coordinazione o abilità visive. È importante sottolineare che questa inclusività non compromette la sfida intrinseca che definisce DOOM: The Dark Ages. Piuttosto, offre strumenti per rendere la sfida affrontabile da un maggior numero di giocatori, garantendo che l'esperienza brutale e intensa possa essere goduta senza frustrazioni eccessive.
DOOM: The Dark Ages emerge come un'audace e riuscita reinterpretazione di una formula ludica consolidata. L'immersione in un'era primordiale del conflitto, arricchita da un'estetica che fonde dark fantasy e sci-fi, getta le basi per un'esperienza visivamente e narrativamente inedita. Le innovazioni nel gameplay, in particolare l'introduzione della filosofia "stand and fight" e l'implementazione versatile dello scudo, unitamente a un arsenale che spazia tra il brutale e il tecnologicamente avanzato, rinvigoriscono il combattimento, aggiungendo strati di profondità tattica senza sacrificare la frenesia distintiva della serie. Sebbene l'integrazione di sequenze con l'Atlan e il Drago sia un neo in una altrimenti perfetta coesione del gameplay in tutte le sue parti, l'espansione degli ambienti esplorabili e un sistema di progressione più profondo contribuiscono a un'esperienza più ricca e personalizzabile. Supportato da un comparto tecnico di eccellenza, capace di garantire fluidità e impatto visivo anche nelle situazioni più caotiche, e da un lodevole impegno verso la personalizzazione della difficoltà, DOOM: The Dark Ages si presenta come un titolo in grado di soddisfare sia i veterani della serie in cerca di evoluzione sia i nuovi giocatori attratti dalla sua brutalità stilizzata. L'attesa per il suo debutto è giustificata dalla promessa mantenuta di un capitolo che non teme di innovare, pur rimanendo fedele allo spirito indomito dello Slayer.
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Nel 2020, in pieno periodo di pandemia, lo sviluppatore Infuse Studio debuttò con la sua avventura open world Spirit of the North. Il gioco, pur ricevendo un'accoglienza tiepida dalla critica, ebbe un discreto successo sulle piattaforme digitali e ancora oggi gode di una valutazione “molto positiva” su Steam. A distanza di 5 anni il team ci riprova con questo Spirit of the North 2, che del capitolo precedente costituisce una sorta di sequel stand-alone.
Spirit of the North 2: una nuova volpe in giro per la tundra
Due luci si rincorrono nel cielo stellato delle regioni del nord: sono gli spiriti di due volpi [quelle del primo gioco, probabilmente] che giocano tra le stelle, fino a toccarsi e lasciar cadere una terza luce [il figlio?] sull'Isola delle Volpi, l'ultimo luogo dove ancora si trova un po' di vita. Le terre circostanti, appartenente alle tribù dell'Orso, del Corvo, del Cervo, dell'Ariete e dei Lupi sono infatti devastate da quando lo sciamano Grimnir ha scatenato una guerra il cui unico esito è stato caos e distruzione. Cosa può fare una sola volpe, accompagnata da un corvo, per riportare la vita e la pace? Beh, un buon inizio sarebbe magari quello di evitare di risvegliare Grimnir dalla sua prigione... ma [oops!] è proprio quello che succederà all'inizio della storia...
Spirit of the North 2 fa dunque riferimenti occasionali al predecessore ma è in generale un'avventura nuova e indipendente: protagonista pilotata dal giocatore sarà comunque nuovamente una volpe che dovrà bighellonare per un mondo principalmente avvolto dalla natura in cui qua e là saranno rinvenibili i resti degli insediamenti umani, in abbandono e rovina da centinaia di anni. Lo scopo è quello di raggiungere gli spiriti degli animali-totem delle varie tribù, tutti in qualche modo corrotti dall'opera di Grimnir, per purificarli dalle loro sofferenze e tramite il loro aiuto sconfiggere lo sciamano e riportare il mondo in salute.
Passaggi da equilibrista per raggiungere questo insediamento sugli alberi
Di base, i comandi si limiteranno alla corsa e al salto, che in svariate circostanze sarà precalcolato – il ché vuol dire che se premerete il tasto quando compare una piccola freccia azzurra la volpacchiotta raggiungerà automaticamente il punto in questione. Man mano che si prosegue nell'avventura si otterranno delle Rune e le Benedizioni degli spiriti, sbloccando così ulteriori manovre come il doppio salto, la planata, lo scatto in avanti o la possibilità di assumere temporaneamente una forma spirituale. La volpe potrà anche raccogliere un oggetto[uno alla volta], il ché implementa nel gioco una meccanica del tipo chiave/serratura, oppure interagire con leve o altri elementi meccanici. Non mancheranno naturalmente piattaforme mobili su cui saltare, getti d'aria o d'acqua da cavalcare, interruttori a pressione, trappole infuocate e altri ostacoli che potranno portare il canide a una fine prematura – e al ritorno all'ultimo checkpoint visitato.
Quando morirete perderete anche i cristalli trasportati – valuta spendibile in vari modi per ottenere ad esempio Rune aggiuntive preso le Grotte dei Procioni o per attivare gli Obelischi che rivelano la mappa – ma in maniera simile a quanto avviene nei souls-like sarà possibile recuperarne una parte raggiungendo il luogo della morte. Alcune quest, sia principali sia opzionali, permetteranno di ottenere punti da spendere sull'Albero delle Abilità migliorando le riserve di vita, di energia spirituale, di cristalli conservabili o di Spiritelli trasportabili – altra valuta particolare, difficile da reperire ma fondamentale per portare avanti la vicenda.
Tra spine velenose reggendo una torcia tra le fauci
La lore sarà descritta da queste pergamene
Qui qualcuno si è dimenticato qualche texture...
Spirit of the North 2: troppi problemi
Il primo impatto con il lavoro di Infuse Studio è tutto sommato gradevole: il mondo è certamente molto spoglio, ma alberi, strutture e il modello della Volpe, tra l'altro personalizzabile, non sono male – certo, non ai livelli di una produzione AAA, ma comunque notevoli per un team Indie. Basta però fare qualche passo all'aperto per rendersi conto che su PS5 in modalità Fedeltà il frame-rate cala un bel po' e per mantenere il gioco alla massima fluidità occorre switchare su Prestazioni, con conseguente ridimensionamento della qualità generale. Eppure gli ambienti sono essenzialmente spogli: esclusi la volpe e il corvo i modelli animati sono veramente pochissimi [ma non ci sono altri animali in 'sto mondo?] e la sensazione di “vuoto” è spesso imperante.
Ciò che ci sconcerta è il fatto che lo sviluppatore sembra aver campato di rendita con il motore Unreal Engine e gli assets del primo Spirit of the North, ma che non abbia fatto alcun passo avanti: malgrado i 5 anni di distanza tra i due giochi, paragonando le sequenze di gameplay ci si rende conto che il secondo capitolo è tecnicamente un more of the same, quasi fosse un enorme DLC rilasciato a parte. Come se ciò non bastasse, il problema della fluidità è forse il più marginale che il gioco presenta: il più grave è invece quello dell'illuminazione. Nell'intento di rendere le luci ambientali dinamiche, con tanto di “adattamento progressivo” della vista della volpe quando si passa dalle zone aperte a quelle chiuse, troppo spesso capita che il sistema sbarelli e ci si ritrovi circondati dal buio più assoluto. In questi casi si può sperare di risolvere ritornando sui propri passi (se ancora la strada è percorribile) o in extremis uscendo e rientrando nel gioco... ma talvolta non basta neppure questo.
Anche l'audio, che pure è limitato agli effetti sonori e a pochi temi di accompagnamento, in certi contesti presenta dei difetti, come “gracchi”, stuttering o altri glitch. Ma la cosa che più irrita l'esperienza di gioco è l'interfaccia e la risposta ai comandi, che è veramente rognosa e decisamente mal ottimizzata per il supporto joypad [e anche in questo caso ricordiamo che il primo gioco è uscito 5 anni fa]: basti pensare al fatto che lo scatto non lanci la volpe nella direzione in cui si sta muovendo ma bensì verso il centro dell'inquadratura... anche nella gestione del doppio salto abbiamo trovato scelte assai discutibili che derivano dalla trascuratezza più che dall'inesperienza, sebbene la patch del day-one abbia risolto parte del problema.
Questa nebbia è in effetti il frutto della pioggia
Spirit of the North 2: giudizio severo a malincuore
Quanto detto impatta ovviamente in maniera negativa sul giudizio su Spirit of the North 2 e questo è, in tutta sincerità, un peccato: il gioco ha i suoi numeri in un mondo molto vasto da esplorare – il vuoto che si percepisce nasconde infatti Spiritelli da trovare e occasionali grotte e quest secondarie – in enigmi talvolta intriganti, in una Lore affascinante da scoprire tramite le pergamene sparse qua e là [la storia di Grimnir è tutt'altro che quella di un “cattivo da operetta”], in boss-fight tutte differenti e con una valida curva di difficoltà crescente, con una longevità che può tranquillamente superare le 12-15 ore, anche 20 per i completisti.
Ma come uno studente pigro che “è intelligente ma non si applica” e preferisce vivere di rendita del compitino fatto 5 anni fa, questo secondo capitolo della volpe si accontenta di una striminzita sufficienza. Se però avete apprezzato il primo Spirit of the North e non vedete l'ora di tornare a vestire la pelliccia della volpe nel mondo del nord, allora è il gioco che fa al caso vostro.
Spirit of the North 2 è tanto un “more of the same” del primo capitolo quanto un'occasione mancata per il team di sviluppo di spiccare il volo con un prodotto di qualità superiore. La Lore e la struttura del gioco sono accattivanti, questo è innegabile, ma i problemi tecnici e le leggerezze nell'interfaccia rendono il gameplay ostico e farraginoso, impedendoci di dargli un giudizio superiore alla sufficienza. Ed è sinceramente un peccato...
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Amerzone: The Explorer’s Legacy, il remake che aspettavamo?
Se amate gli enigmi e avete sempre sognato di essere dei grandi esploratori, preparatevi a ringraziare Microids, perché la casa francese ha deciso di riportare in auge uno dei titoli che ha fatto la storia delle avventure punta e clicca ed eccoci qui per farvi leggere la recensione di Amerzone: The Explorer’s Legacy. L'occasione per mettere le mani sulla prima opera videoludica del compianto artista belga Benoît Sokal è quella del remake prodotto per i 25 anni dalla sua uscita, ma state tranquilli: non siamo davanti a una semplice operazione commerciale o a una mera commemorazione.
Ogni oggetto ha degli indizi da scovare
Tagliamo subito la testa al toro: Amerzone: The Explorer’s Legacy è un vero remake, uno di quelli che mette mano a tutto il titolo originale, andando a ricreare in ogni suo elemento, con il pregio di migliorarlo praticamente da ogni punto di vista senza però snaturarlo. Bene, ora che ho risposto alla vostra domanda principale (e sono sicuro che siete corsi a fondo pagina per vedere il voto), andiamo per gradi e contestualizziamo in favore di chi, nel 1999 non ha avuto la fortuna di giocare la prima incarnazione di Amerzone. Avventura punta e clicca in prima persona di stampo classico, Amerzone è il primo videogioco nato dalla mente e dalla matita di Sokal,che nel gaming ha saputo trasportare tutta la sua arte e dare vita, oltre al gioco di cui stiamo parlando, a titoli come la saga di Syberia.
Siamo alla fine degli anni '90 e il nostro protagonista è un giornalista che ambisce a fare carriera a cui è stato assegnato il compito di intervistare lo sfuggente Alexandre Valembois, professore conosciuto per essere praticamente l’unico esploratore ad aver svelato la nazione di Amerzone, misteriosa e selvaggia terra nei pressi dell'Amazzonia dove vive una specie autoctona di uccelli bianchi che sembrano essere legati a una particolarissima modalità di riproduzione di gruppo gestita da un unico uovo, il cui destino si mescola alle conseguenze dei fumi tossici esalati da un vulcano presente sul territorio, con il tutto che finisce per mescolare realtà a leggende locali.
L’intervista, però, dura pochi minuti e si conclude con la morte di Valembois, lasciandoci completamente irretiti dalla sua richiesta di tornare al posto suo ad Amerzone e porre rimedio a quello che aveva fatto all’epoca della sua esplorazione. Per quanto ci metteremo un po’ a capire la reale portata dei fatti accaduti in passato e perché è così importante raccogliere l’eredità del vecchio esploratore, decideremo di metterci in gioco e partire. Questo è l’incipit che ci porta a iniziare a esplorare ogni angolo della casa di Valembois per poi partire alle volte di Amerzone con un mezzo di trasporto davvero particolare, in una avventura che sin da subito mette tantissima carne al fuoco, spaziando dagli elementi più personali a fattori legati alla politica di Amerzone e alla natura che la circonda. Il tutto ci viene raccontato un poco alla volta, indizio dopo indizio, trovando documenti di vario tipo e parlando con i (pochi) personaggi che incontreremo.
La grafica rende perfettamente giustizia al lavoro originale
Amerzone: The Explorer’s Legacy, cosa c'è di nuovo?
Le meccaniche sono estremamente classiche e ci troveremo, ad ogni capitolo, ad esplorare aree diverse dove risolvere enigmi che ci permetteranno di andare avanti con la trama e diradare il mistero attorno ad Amerzone e i suoi uccelli bianchi. Sono disponibili due livelli di difficoltà, ma in entrambi i casi si riesce ad andare avanti senza troppi grattacapi: il mio consiglio è di evitare quello più semplice e godersi una complessità adeguata e che solo in rari casi vi farà imprecare. Sono stati aggiunti diversi enigmi che si fondono alla perfezione con quelli originali (anche questi rivisitati) e rendono più interessante e longeva l'esperienza.
Volendo esplorare ogni elemento del gioco potreste arrivare a 15 ore e se doveste avere problemi in particolari momenti è presente un sistema di aiuti modulari che permettono, nel caso, di farsi dare anche una lieve imbeccata o persino la soluzione della situazione. Dovremo esaminare per bene ogni oggetto e controllarne ogni sua parte per trovare tutti i fattori di interesse e sebbene diversi punti non sono obbligatori, tutti vanno a ricreare il grande puzzle che rappresenta l'atmosfera di Amerzone: The Explorer’s Legacy. Sokal, un vero maestro della narrazione, ha dato vita a una ambientazione verosimile dove elementi fantastici convivono con altri reali e danno vita a quello che, per le generazioni passate, poteva essere il racconto di una terra lontana. Una cosa è sicura: tutto combacia e trova il proprio posto nel gioco, con gli enigmi che risultano praticamente sempre coerenti e sensati e una trama che, magari non sarà epocale, ma riesce a tenere alto l'interesse.
Naturalmente c'è stata anche una rivisitazione tecnica, con un impatto grafico di tutto rispetto che rende estremamente godibile Amerzone: The Explorer’s Legacy agli occhi dei gamer. Anche il sonoro non delude e la presenza della lingua italiana (testi e doppiaggio) è un plus che, al giorno d'oggi, non va sottovalutato. Peccato per la scelta del font con cui è scritto il diario del protagonista, davvero scomodo da leggere e impossibile da cambiare. Lo stesso corsivo torna anche in altri documenti di gioco, per la disperazione dei nostri occhi e la gioia dei nostri oculisti. Il dual sense si sposa senza problemi col gameplay, senza far rimpiangere mouse e tastiera, in più è presente la possibilità di vedere, con la pressione di un pulsante, tutte le zone e gli oggetti selezionabili di una ambientazione, così da poter andare a colpo sicuro e non perdersi qualcosa.
Birretta?
Amerzone: The Explorer’s Legacy è un'avventura grafica dai molti pregi, a partire dall'atmosfera per cui si deve rendere onore a Benoît Sokal, ma non bisogna dimenticare il gran lavoro di Microids nel creare un vero remake arricchito in ogni suo punto. Forse un po' facile e sicuramente con qualche scelta stilistica rivedibile, ma questo ritorno ad Amerzone rimane consigliatissimo a tutti gli amanti del punta e clicca, sia che si stia parlando di chi ha già scoperto il mistero degli uccelli bianchi, sia per chi ci si appresta solo oggi a raggiungere questo strano fazzoletto di terra del Sud America.
No, non è solo “effetto nostalgia”: Amerzone: The Explorer’s Legacy era un gran gioco e l’attento lavoro di Microids per renderlo godibile dopo 25 lunghi anni permette di dare ancora una volta una grande avventura a noi giocatori e il giusto omaggio a un genio indimenticato come Benoît Sokal. Classica avventura punta e clicca caratterizzata da un'affascinante atmosfera e da situazioni intriganti, Amerzone: The Explorer’s Legacy migliora in tutto: durata, impatto tecnico e persino numero e qualità degli enigmi, senza dimenticare una resa più user friendly delle meccaniche di gioco. Forse non sarà difficilissimo e la longevità non è delle migliori, senza contare l’impossibilità di cambiare il font delle scritte nel diario, ma Amerzone: The Explorer’s Legacy non è semplicemente il recupero di un titolo del passato, ma un remake che merita di essere giocato sia da nuovi che vecchi esploratori videoludici.
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