Transference
Il dibattito riguardante similitudini e diversità tra cinema e videogioco è sempre molto accesso e attuale. Due medium che dialogano tra loro, riuscendo a creare una sinergia che solamente 10/15 anni fa non era nemmeno immaginabile.
La VR ha aggiunto un'altra dimensione sensoriale a questo dibattito, stimolando le sinapsi di molti addetti ai lavori che, in questa tecnologia, hanno intravisto nuovi stimoli emotivi e psicologici.
Nella testa delle persone
Transference è l'esaltazione cruda - quasi violenta nel suo essere asciutta e diretta - di quanto scritto sopra. Una storia che per il modo in cui viene raccontata e proposta al giocatore, si distacca in maniera poderosa da altre realtà attualmente presenti sul mercato.
Di fatto si tratta della prima grande collaborazione, in ambito VR, tra un publisher videoludico (Ubisoft) e uno studio di produzione cinematografica: SpectreVision.
Sì perché se la vostra memoria non vi gioca brutti scherzi, sicuramente ricorderete la presenza dell'attore Elijah Wood sul palco della conference E3 di Ubisoft. Una presenza tutt'altro che di facciata, ma utile ad annunciare un titolo - Transference per l'appunto - sviluppato da quella casa di produzione da lui stesso fondata (insieme ai registi Daniel Noah e Josh Waller) e specializzata in Horror movie e Thriller psicologici.
Toccando con mano il titolo, è sin da subito percepibile come dietro allo sviluppo di questo gioco la presenza di soggetti legati esclusivamente al mondo del cinema (il supporto di Ubisoft,a quanto pare, è stato principalmente tecnico) ha portato la narrazione su un piano differente, quasi unico.
Transference racconta dello scienziato Raymond Haynes, un uomo che attraverso diversi esperimenti è riuscito a sintetizzare la coscienza umana all'interno delle macchine, così da poterla analizzare all'interno di una rappresentazione completamente digitale. Purtroppo per lui però, la scelta di utilizzare questo strumento nell'ambito famigliare porterà a dei disastri psicologici che vivremo letteralmente sulla nostra pelle.
Il gioco di Ubisoft è più o meno catalogabile nel genere di Gone Home, o se volete dei walking simulator. Visuale in prima persona; ambientazione claustrofobica all'interno dell'appartamento degli Haynes; qualche enigma ambientale da risolvere, mai banale ma nemmeno scontato.
La forza del gioco tuttavia sta nella folle gestione dell'ansia, del coinvolgimento all'interno di un contesto che sanguina di nervosismo e paura. Entrati nella storia ne uscirete solamente una volta finita, e tirerete un grande sospiro di sollievo, ma allo stesso tempo soddisfatti di aver vissuto un esperimento in un certo senso davvero unico.
Transference non è un gioco facile da assimilare, complice una narrazione martellante mai banale, che porta il dialogo su più livelli (dello scienziato, della moglie e del figlio) e lo fonde con il contesto malato e disturbato dell'ambientazione. Ci saranno segreti da scoprire sulla famiglia Hayes, e pian piano il significato stesso del nome dato al gioco vi si materializza nella testa (il concetto di traslazione, usato anche nella psicologia, ha un perfetto senso all'interno del gioco) con assoluta certezza. Ma lo sforzo di attenzione mentale ed emotiva non è per nulla banale.
Peccato per una durata davvero risicata, forse pensata per tenere costantemente il giocatore sul chi va là, sfruttando anche musiche incredibili e super coinvolgenti.
Inutile dire che, se non possedete un visore, il titolo perde tantissimo in termini di immersione ed esperienza ludica, e rischia di non stimolare quella empatia con il personaggio che invece si sviluppa giocando con la nuova tecnologia.
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Redazione