Valkyria Revolution

di Daniele Mariani

Final Fantasy XV. Bravely Second. Tales of Berseria. E ovviamente Persona 5. Solo alcuni degli eccellenti j-RpG usciti negli ultimi anni -molti di più di quanti l’utente medio possa avere opportunità di giocare. Purtroppo, Valkyria Revolution (lo spin-off action della storica serie tattica pubblicata da Sega e sviluppata da Media Vision) ha perso questo treno di eccellenza ed offre invece una prestazione scadente, adagiandosi sulle glorie del proprio predecessore senza tuttavia raccoglierne l'eredità: disponibile dal 30 Giugno in versione Playstation Vita e nel suo porting per Playstation 4, ecco la nostra recensione di questo spin-off della vergogna.

Valkyria Revolution cala il giocatore in una Europa ucronica, all’alba di una seconda rivoluzione industriale: al posto del vapore è qui l’alchimia ad aver sconvolto gli equilibri sociali, ad armare soldati e alimentare le fabbriche, e a preparare una polveriera politica fatta di superpotenze e nazionalismi. È in questo scenario che un gruppo di cinque orfani del piccolo regno di Jutland vede il proprio villaggio ridotto in cenere dal malvagio esercito invasore dell’impero Ruzi (una potenza equivalente grosso modo alla Russia zarista).

Siccome la vendetta è un piatto che va servito freddo, i giovani orfani si coalizzano nell’odio verso nemico invasore ordendo un piano lungo dieci lunghi anni -durante i quali ognuno di loro dovrà specializzarsi per infiltrarsi ed ottenere una posizione di potere in uno dei settori cruciali di questo nuovo mondo: servizi segreti, stampa, industria, parlamento, esercito. Quando si ritroveranno, da adulti, sarà per agire nell’ombra come cospiratori nello spingere la propria patria in una guerra personale contro l’intero impero nemico.

Se le premesse di Valkyria Revolution possono sembrare decisamente originali ed intriganti (specialmente considerandone la narrazione in retrospettiva, effettuata da una coppia di storici intenti a scoprire il complotto dietro “la grande guerra”), purtroppo il loro sviluppo e la loro esplorazione si rivelano una occasione del tutto sprecata: dimenticate le succose promesse di una gestione dell’elemento “guerra” a 360° come mai prima nella serie, con componenti di gestione dell’opinione pubblica, delle risorse naturali degli stati invasi e del favore di varie fazioni politiche; il flavor della storia dei “Cinque Traditori” viene invece completamente ignorato mettendo il giocatore nei soli panni di Amleth Grønkjær, il membro infiltrato fra le fila dell’esercito -e braccio armato dei cinque cospiratori contro i generali nemici.

Cutscene dopo cutscene (alcune lunghe diverse decine di minuti di fila) Valkyria Revolution punta a costruire una estetica mitteleuropea molto inspirata, fatta di divise, mostrine e capace di citare numerosi toponimi europei (uno fra tutti, Elsinore) facendone dei luoghi allo stesso tempo fiabeschi e reali -ma il risultato si attesta più come gioco handheld che come epica da console, impoverito da numerose imperfezioni puramente tecniche: texture piatte, modelli poligonali tagliati con l’accetta, fondali scarsamente dettagliati, e animazioni da manichino. Terribili animazioni da manichino. Sparito il Canvas Engine e con lui le tonalità pastello del primo Valkyria, Revolution opta per una soluzione furba sovrapponendo ad un modesto cel-shading colorato un filtro ad effetto “sporco” (come in una vecchia fotografia d’epoca, per intenderci) -una strada insoddisfacente e probabilmente dettata dalle limitazioni della PS Vita, per cui il gioco è stato evidentemente realizzato su misura.

Se questa dipendenza dall’hardware handheld può in qualche modo giustificare le lacune di Valkyria Revolution sul piano tecnico, è su un altro staple della saga che il gioco conferma, purtroppo, il distaccamento dai temi della serie (e con esso la propria mediocrità): la tematica stessa della guerra. La costruzione di una narrazione marziale fatta di fucili, uniformi, ordini urlati sopra il rumore delle esplosioni e camraderie è qui sostituita da un character design anime al confine del weaboo -fatto di armi sproporzionate, un cast variegato di personaggi monodimensionali e abiti da gothic lolita. Il procedere degli eserciti, le cartine mute e la profondità tattica di intere campagne militari sono ora raccontate in modo semplicistico attraverso l’esperienza core del gioco -un action hack-and-slash che non può essere definito musou solo per il ristretto numero di nemici presenti, e per una curiosa ibridazione con un sistema di turni.

Parliamo di gameplay: in ogni missione di Valkyria Revolution è possibile schierare sul campo una squadra composta da quattro personaggi. L’obiettivo può variare, ma grosso modo consiste sempre o nella sconfitta di una grossa unità (come mech o generali nemici) posta in fondo ad una mappa labirintica, o alla conquista di alcune “zone” sparse per la mappa -conquista ottenuta sconfiggendone i nemici minori posti a guardia.

Si controlla un solo personaggio, lasciando il comportamento degli altri tre ad una IA costruita da una somma di tattiche assegnate individualmente (lasciando ad alcuni personaggi il compito di curare e ad altri quello di attaccare in mischia, ad esempio) e di ordini assegnati all’intero party -come quello di dividersi o di avanzare compatti. Il giocatore è lasciato libero di muoversi, schivare o bloccare i colpi nemici liberamente -ma per qualsiasi altra azione, dai semplici attacchi all’impartire ordini più specifici, è necessario attendere il caricamento di una barra del tempo.

Quello che colpisce, in Valkyria Revolution, è la poca cura riservata alla commistione di generi. La componente action è, per quanto core, ridotta all’osso: una schivata, presto promossa a metodo di movimento principale, e un tasto guardia utile per avvicinare le trincee nemiche o qualsiasi unità capace di attacchi a lunga distanza. La pressione del tasto di attacco consente solo una breve sequenza di mosse, un combo 1-2-3 da mischia che non cambierà di una virgola fra il primo e l’ultimo minuto di gioco -inutile aspettarsi diverse combinazioni o customizzazioni a seconda dei tasti premuti.

La gestione della componente turnistica è forse più fondamentale, ma pecca della confusione dovuta alla famosa commistione di generi: nonostante ogni “azione” vera e propria necessiti dell’attesa del proprio turno, ogni scelta diversa dal semplice attacco (dall’uso di armi da fuoco. relegate ad armi secondarie, agli incantesimi) passa attraverso l’apertura e la navigazione del menù, interrompendo l’azione semi-letteralmente ogni 2/3 secondi, senza la possibilità di tasti di scelta rapida. Persino l’unico modo per far eseguire comandi precisi ai propri compagni (come richiedere una cura o utilizzare un attacco elementale) è quello di utilizzare il proprio turno per impartire l’ordine attraverso tre menù diversi. 

Considerando anche come la velocità della barra del tempo dipenda, semplificando molto, dall’andamento della battaglia e dal numero di nemici uccisi (creando una sorta di momentum che incentiva un procedere lento e metodico, ripulendo la mappa dalle forze nemiche in ogni angolo), il risultato è un sistema di battaglia diviso sia nelle logiche teoriche che nei risultati pratici: le boss fight, in particolare, finiscono per essere una esperienza estenuante -composta da un susseguirsi di turni rapidissimi inframezzati da brevi momenti di movimento tanto libero quanto impotente e passivo, cicli di aggancio/sgancio dal nemico e altre caratteristiche ibride decisamente fuori luogo in un periodo storico capace di regalare perle come Final Fantasy XV e Persona 5.

Considerando il campo delle meccaniche di gioco, insomma, la perdita di identità di Valkyria Revolution è evidente. In Valkyria Chronicles, la guerra era una questione di armi d’epoca, fili spinati e granate; in questo titolo i protagonisti corrono sul campo di battaglia dotati di incantesimi e armi potenziate che non sfigurerebbero in nessun anime, seguendo logiche che potrebbero trovarsi in qualsiasi altro titolo.