Vane

Dagli autori di Ico? Nichilismo videoludico

“In un deserto in rovina, una strana polvere dorata trasforma un uccello dallo spirito libero in un giovane essere umano, dando così inizio a una serie di eventi che cambieranno il mondo intero.”

Annunciato con un accattivante teaser al Tokyo Game Show del 2014, con uno sviluppo di oltre quattro anni alle spalle e curato da un team composto da sviluppatori occidentali che hanno preso parte a lavori del calibro di The Last Guardian, Vane sembrava avere tutte le carte in regola per spiccare il volo sulla scena indie.

Comparso nuovamente alle PlayStation Experience del 2016 e del 2017, il lavoro degli ex di Team Ico, Friend and Foe, pareva seguire la strada già tracciata da titoli indipendenti come Journey, Abzu, Limbo e Inside o da produzioni a più alto budget come Shadow of The Colossus e The Last Guardian.

Il codice finale del prodotto, però, su quella strada sembra essere inciampato innumerevoli volte, arrivando alla meta con più di qualche acciacco. Dei suddetti e apprezzati lavori mantiene solamente il carisma artistico, peccando su molteplici fronti, a partire dalla sua stessa natura: Vane dovrebbe essere un prodotto “muto”, forte nel rappresentare un metaforico e poetico viaggio, capace di trasmettere emozioni con espedienti “minimali” ma significativi.

Con tanto rammarico (viste le nostre aspettative) ci siamo trovati ad analizzare un media non solo inadeguato a livello comunicativo ma, soprattutto, denso di difetti troppo evidenti e difficilmente ignorabili perché ci si possa concentrare sui suoi pochi spunti positivi.

I Believe I Can Fly

In un’avventura completabile in poco più di due ore che ne richiede altrettante per tentare di capire ciò che si deve fare e poi realizzarlo, ci deve necessariamente essere qualcosa che non funziona. Il problema di fondo di Vane è una evidente discrepanza tra ciò che il team di sviluppo voleva proporre e quello che, purtroppo, il giocatore si trova tra le mani.

Inutile negare che il primo impatto ha il suo fascino: l’introduzione dell’opera nei panni della forma umana, arricchita da sonorità evocative, è semplice e immediata. Il mondo di gioco che si frammenta davanti ai nostri occhi ha quel carisma “tetro” che abbiamo apprezzato nei lavori dei PlayDead (Limbo e Inside) e gode di quel minimalismo oscuro capace di trasmettere di pari passo interesse e angoscia.

L’entusiasmo, però, crolla inesorabilmente non appena ha inizio la prima fase in cui si controlla il Corvo.

Tasto X per battere le ali, Cerchio per rallentare e afferrare e Triangolo per richiamare gli amici pennuti in precisi punti d’interesse; il D-Pad o lo Stick Sinistro sono adibiti al volo e l’analogico destro alla gestione della visuale.

Niente di particolarmente complesso, in teoria… In pratica, invece, tutto è confuso, a partire dalla telecamera che tende a zoomare sulla coda del pennuto, precludendo la fondamentale visione d’insieme della zona che si sta esplorando in cerca degli elementi interagibili (inoltre si ha solo una parvenza di libertà a 360° perché l’inquadratura ritorna in automatico nella sua posizione standard).

Questi, sono collocati in mappe eccessivamente ampie e poco intuitive che costringono il giocatore ad un’esplorazione snervante. Finalmente avete capito come progredire in quella precisa sezione puzzle-solving? C’è poco da cantar vittoria: spesso e volentieri telecamera e comandi faranno il possibile per farvi mancare il preciso punto su cui agire, costringendovi a ripetere più volte le operazioni di volo, planata e atterraggio prima che l’operazione vada a buon fine. Gli stessi enigmi, inoltre, non stimolano l’ingegno: una volta scoperto il meccanismo, quasi sempre fondato sul raggruppare uno stormo sufficientemente numeroso, si verifica un more-of-the-same poco divertente basato non sulla capacità di ragionamento del player ma sulla sua soglia di sopportazione nel ripetere, con i suddetti problemi, la medesima meccanica più volte.

Inoltre, un prodotto ad enigmi ambientali che punta a stimolare il pensiero laterale non può presentarsi così “disordinato”; come detto sopra, le ambientazioni sono più vaste del necessario: vogliono forse trasmettere desolazione, inquietudine e incarnare qualche tipo di metafora? È la sola noia ad emergere, dato che, viste le scelte discutibili di level-design, ci si perde spesso e volentieri, battendo casualmente (e inutilmente) le ali per decine di minuti. Giusto per fare un esempio, in molte, troppe sezioni la mappa si estende in una verticalità abbastanza sterile e meramente estetica.

Riassumendo quanto vi abbiamo detto, vengono a mancare due emozioni fondamentali in un media del genere: curiosità nei momenti esplorazione e soddisfazione nella risoluzione degli enigmi proposti.

Stroboscopico

Vane ha certamente un ottimo impatto visivo. La scarsa mole poligonale è compensata da un lato artistico degno di nota che può vantare una piacevole palette cromatica “cangiante” (come le piume del “protagonista”) tra il cupo e il brillante. Anche l’estetica delle ambientazioni, pur nella loro impostazione dispersiva, rientra tra i pregi dell’opera.

I ragazzi di Friend and Foe hanno fatto un buonissimo lavoro anche per quanto riguarda il comparto audio, fondendo egregiamente i rumori ambientali con sonorità rilassanti tipicamente zen e un sound elettronico che sembra provenire dagli anni ’80.

I problemi del gameplay, però, si fondono con situazioni quasi inspiegabili in un prodotto così leggero e con un lungo sviluppo alle spalle. Sorvolando sui bug che ci hanno costretto al riavvio della partita (con checkpoint troppo distanti fra loro), è il frame-rate ad avere problemi inaccettabili: mai stabile e tendenzialmente basso, conferisce al giocato un terribile effetto “stroboscopico”. In alcuni momenti si riesce quasi a distinguere i singoli fotogrammi, in altri si assiste a dei prolungati freeze. Non mancano, inoltre, compenetrazioni e fenomeni di pop-up, con strutture e texture che vanno a comporsi in modo imbarazzante sullo schermo.