We Happy Few
Ci sono progetti che, purtroppo, vengono fagocitati dalle loro stesse ambizioni, restando vittima di situazioni contingenti che vanno a segnare in maniera indelebile la qualità generale. È il caso di questo We Happy Few, titolo sviluppato da Compulsion Games (ora team all’interno della scuderia Microsoft) che dopo anni di early access e una serie di cambiamenti strutturali piuttosto importati, arriva in forma definitiva su Ps4, One e PC.
DISTOPIA GIOIOSA
Il contesto all’interno del quale è costruito questo universo ludico è indubbiamente affascinante e carico di citazioni letterarie, ludiche e non solo. Ci troviamo nel 1964 a Wellington Wells, paese del Regno Unito. Per sopravvivere ad un dopoguerra tutt’altro che gioioso, il governo ha deciso di creare artificialmente questa gioia. La società è controllata attraverso l’assunzione di una droga sintetica che gli permette di vedere quello che la circonda in modo colorato e allegro. Un vero e proprio regime distopico e isolante, che ricorda, neanche troppo velatamente, veri e proprio capisaldi di svariati settori: 1984 e Bioshock su tutti.
In questo contesto ci troveremo ad impersonare - per la maggior parte del tempo - Arthur Hastings, dipendete dell’ufficio censure che, in un momento di lucidità, si ricorda di suo fratello (deportato in Germania) e della promessa di proteggerlo. Decide così di smettere di assumere la “Joy” e lanciarsi all’interno di un’avventura che lo porterà a visitare località cittadine, terreni pericolosi occupati dai “musoni” (coloro che non assumono più Joy) e a conoscere personaggi che successivamente verranno anche impersonati. Successivamente ci troveremo anche a vivere le storie di altri due personaggi, che si intrecceranno con l'avventura di Arthur.
We Happy Few non nasce come progetto story-driven. Questa è una cosa che bisogna tenere saldamente a mente nel momento in cui ci si affaccia al titolo. Nato come progetto survival procedurale, e dopo un early access piuttosto disastroso, ritarda di parecchio tempo la sua uscita per la scelta, degli sviluppatori, di aggiungere un vero e proprio elemento narrativo.
Una scelta che indubbiamente influenza terribilmente una struttura che non riesce mai ad essere realmente soddisfacente. Il motivo è piuttosto semplice, l’idea di far coesistere più elementi ludici - come la proceduralità o la narrativa - tra loro è sulla carta una cosa piuttosto ambiziosa, che lascia ben sperare per il futuro di questo team indubbiamente ricco di personalità, ma che in questo We Happy Few non si concretizza minimamente.
NOIA, NON HO DETTO GIOIA
La storia di Arthur è infatti strutturalmente noiosa: missioni molto simili tra loro, grandi distanze da coprire, IA dei nemici gravemente insufficiente e un sistema di combattimento che ha più di qualche falla.
Purtroppo è palese notare come in moltissimi passaggi la componente narrativa sia stata appiccicata successivamente in fase di sviluppo, non riuscendo a calzare perfettamente con il resto della struttura ludica, anzi, andando addirittura a sbilanciarla.
Gli elementi survial (almeno inizialmente) sono stati addolciti: non sarà più necessario mangiare, bere e riposare per sopravvivere. Non farlo ci darà semplicemente dei malus sulla stamina, sulla nostra forza d’attacco e così via.
Assumere Joy invece ci servirà per evitare di essere infastiditi dagli abitanti e dai Bobby nelle cittadine inglesi. L’abuso di questa sostanza però, come tutte le droghe, ci porterà a soffrire di effetti da overdose come: amnesia e allucinazioni. Sulla carta insomma la struttura sembra interessante, con una forte e decisa virata verso lo stealth rispetto ad una componente di pura azione.
Peccato che tutto questo si infrange, principalmente, su una IA che non ha senso di esistere. Quando si viene scoperti, soprattutto nelle città, si creano dei trenini di persone che vengono allarmate totalmente a caso, e iniziano ad inseguirti manco ci trovassimo davanti ai festeggiamenti di Capodanno. Situazioni che vengono semplicemente risolte accovacciandosi nell’erba per pochi secondi e magicamente non ti vede più nessuno, con i personaggi che tornano alla loro ronda classica senza pattugliare la zona. I combattimenti di We Happy Few riprendendono nella struttura quelli di di Dishonored, ma a causa di collisioni terribili, compenetrazioni poligonali e altre amenità varie, non risultano praticamente mai efficaci e precisi.
Tutti elementi che vanificano anche una abbozzata crescita del personaggio, realizzata attraverso il classico sistema di rami e punti esperienza.
Insomma We Happy Few non è divertente da giocare, non ora almeno. La sensazione è quasi quella di un prodotto che è stato fatto uscire perché doveva uscire. Dire che ci aspettiamo delle patch correttive nei prossimi mesi, è davvero un eufemismo.
CARTOLINE SBIADITE
Se quindi sotto l’aspetto puramente ludico il risultato finale è sostanzialmente insufficiente, non è più confortante il comparto tecnico. Giocato su Xbox One X il gioco risulta piuttosto instabile. I 30 frame per secondo non restano mai inchiodati ma, in più di un situazione ha rallentato e anche in maniera vistosa. Glitch e bug sono purtroppo all’ordine del giorno e ci è capito di rimanere bloccati per i più disparati motivi: incastrati nello scenario, vestiti non riconosciuti e quindi quest bloccata, o semplice crash inaspettato.
Anche sotto l’aspetto puramente estetico una direzione artistica accattivante e coinvolgente ( su questo non c’è davvero nulla da dire) è purtroppo sotterrata da una realizzazione tecnica che, evidentemente, necessitava di più tempo per essere rifinito; pop-up, texture caricate con ritardi biblici e molto altro ancora. Se a questo sommate la disastrosa IA di cui vi abbiamo parlato poca sopra, capirete come We Happy Few sembri più un cantiere aperto che un progetto finito.
Guadando al profilo audio, per quanto l’ottima campionatura dei suoni e il piacevole ed immersivo accentato inglese dei personaggi, non rientri tra i difetti di questo progetto, la localizzazione in lingua italiana - sotto forma di dialoghi - soffre anche qui di alcuni problemi, più strutturali che di traduzione: linee di dialoghi che si sovrappongono tra loro e alcuni passaggi che non risultano tradotti.
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Redazione