ACAB: La recensione della serie Netflix con Marco Giallini e Adriano Giannini
Grandi interpretazioni che affascinano, ma non cancellano i problemi
Il giorno dopo la diffusione dei dati ufficiali in cui si comunica che nel 2024 sono stati feriti in servizio oltre 270 agenti, con un aumento del 130% rispetto all’anno precedente, su Netflix arrivano i 6 episodi di ACAB.
La data è ovviamente casuale, ma visto il clima attuale l’uscita è destinata a fare discutere. Perché dopo un primo adattamento cinematografico del romanzo di Carlo Bonini, in cui Marco Giallini interpretava il personaggio di Mazinga, l’attore riprende il ruolo in TV. E lo fa in una serie il cui pregio maggiore è la bravura del cast, ma che dal punto di vista tecnico risulta fastidiosa.
La trama di ACAB
Il movimento NO TAV in Val di Susa, già protagonista di diversi scontri con la polizia, richiede l’intervento di una squadra del Reparto Mobile di Roma. Mazinga (Marco Giallini), Marta (Valentina Bellè) e Salvatore (Pierluigi Gigante) assistono al grave ferimento del loro comandante, colpito da una bomba carta, un vero e proprio ordigno esplosivo. Sconvolti dall’evento, i poliziotti reagiscono all’ennesimo attentato alle loro vite. L’arrivo del nuovo comandante, Michele (Adriano Giannini) metterà in discussione i legami costruiti all’interno della squadra, con una visione che vorrebbe cancellare il cameratismo vecchia scuola che lega l’unità, mentre le vite private degli agenti s’intrecciano con il loro lavoro.
Un grande cast
ACAB vanta senza dubbio un grande cast. I protagonisti sono davvero bravi: credibili, naturali, verosimili nelle loro fragilità e nella loro quotidianità. Anche il livello della produzione è elevato. Firmata da Cattleya, ACAB può vantare un ottimo dispiego di mezzi, una cura per la messa in scena e un approfondimento psicologico che, mancando in sceneggiatura, arriva fortunatamente grazie all’intensità delle interpretazioni.
Perché la sceneggiatura di Filippo Gravino (che firma la serie da creatore) con Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini è caratterizzata da una forte mancanza di equilibrio. Se da un lato cerca di approfondire le personalità dei membri della squadra mobile al centro della trama, dall’altro scivola continuamente nella retorica. Senza fare spoiler, posso riassumere alcune sequenze molto esemplificative del tentativo, mal riuscito, di inserire elementi di ampio respiro che cancellano la credibilità della narrazione. Mi spiego meglio: l’agente veterano, che racconta di aver fatto in Afghanistan esattamente ciò che un’infinità di militari americani hanno già ripetuto in tanti film (American Sniper, Fury e La battaglia di Hacksaw Ridge tanto per citarne 3) è fuori contesto. E rimanda a qualcosa che risulta evidentemente “copiato” da una realtà storica e sociale incompatibile con la nostra. Già questo infrange la prima regola di una sceneggiatura, ovvero restare aderente al contesto. Ma gli esempi sono tanti altri, dal modo in cui si racconta l’attualissimo tema delle truffe sentimentali online al delicato tema della violenza domestica (come se l’unico mezzo a disposizione delle vittime fosse entrare in polizia e armarsi: già visto dozzine di volte a Hollywood). La sceneggiatura di ACAB presenta, da un lato, discorsi infarciti di frasi fatte (penso alla madre di uno dei civili di cui si parla molto, resto vaga sempre per evitare spoiler), e dall’altro personaggi tagliati con l’accetta - come si dice in gergo - da una visione schierata delle cose. Per fortuna, dicevo, ci pensano gli interpreti a dare spessore.
Un enorme problema di regia
Abbiamo capito subito l’intento: sottolineare come il mondo di ACAB, anche in pieno giorno, sia pieno di ombre. Un mondo difficile, oscuro, ambiguo, che nasconde la verità sotto al tappeto insieme allo sporco. L’abbiamo capito. Non per questo siamo tenuti a sorbirci sei interi episodi in cui gli unici espedienti tecnici adottati per raggiungere lo scopo siano una fotografia cupa - che ci sta - e soprattutto una regia fondata sul mettere fuori fuoco l’immagine. Come negli anni ’30, quando la tecnologia non consentiva passaggi meno drastici. Ma senza quella potenza evocativa.
Va bene che bisogna tenersi sempre a distanza dai personaggi, va bene che i poliziotti sono il nemico di turno, quelli che chiamano “zecche” i manifestanti - una delle tante assurdità inserite in sceneggiatura - va bene tutto. Ma il tenere a distanza i personaggi, inquadrandoli contemporaneamente e spostando continuamente il fuoco dall’uno all’altro è fastidioso. Dopo sei episodi, aspettatevi come minimo un mal di testa, ma anche occhi arrossati e nausea. Dovrebbero esserci dei limiti alla mancanza creativa di alternative tecniche. Per il bene dello spettatore, dico.
ACAB andava condensata
Il vero punto di forza della serie arriva verso la fine. L’ultimo episodio e mezzo è nettamente superiore a tutto il resto, e questo rappresenta ovviamente un problema. Sarebbe stato meglio limitarsi a 4 episodi, tagliando tutte le sottotrame forzate, il cui unico scopo è far sembrare che tutti i membri della squadra siano persone problematiche entrate in polizia per mancanza di alternative.
La stanchezza di Mazinga, che tocca e fa riflettere, dovrebbe essere accompagnata da una riflessione più estesa della sola parte finale della vita terrificante a cui i poliziotti vengono sottoposti. Con mezzi (e riconoscimenti) inadeguati, senza protezioni, con una magistratura rappresentata in modo estremamente ostile, a indicare nella polizia un nemico dello Stato. Era chiaro che ci si accostava a una visione di parte, ma così diventa troppo: perde verosimiglianza.
Gli antagonisti - come si chiamano oggi - sono i soliti noti che con scuse pretestuose si lanciano contro le forze dell’ordine per alimentare un clima di tensione sociale. Nella serie proprio come nella realtà. Inserire una riflessione su questo punto avrebbe alzato il livello della discussione, inserito nuovi spunti, cancellato una sceneggiatura monodimensionale. Invece, ad alzarlo sono solo dei grandi attori. Su tutti Bellè, Giallini e Giannini. Sono loro a meritare una visione, con un avviso: fate delle pause. I vostri occhi vi ringrazieranno.