Beauty in Black: la recensione della serie-disastro di Netflix
Un prodotto costoso ma povero di contenuti
Tyler Perry’s Beauty in Black. Il titolo completo della serie disponibile su Netflix con i suoi (interminabili) 8 episodi è questo. Come se Perry fosse, che so, Harlan Coben, ovvero uno scrittore e autore da milioni di copie vendute. Tyler Perry non lo è. Tyler Perry, i suoi lavori migliori, li ha fatti come interprete. Nasce come interprete dei propri lavori teatrali, diventa un bravo attore ma le sue ambizioni vanno decisamente oltre la “semplice“ interpretazione di un ruolo.
Il podcast di Beauty in Black
Ecco quindi che inizia a creare i propri prodotti per cinema e TV, con risultati piuttosto altalenanti, fino ad arrivare a questo disastro.
La trama di Beauty in Black
Kimmie (Taylor Polidore Williams, Snowfall) scacciata di casa da ragazzina dalla madre, si guadagna da vivere lavorando come spogliarellista (e non solo) insieme all’amica Rain (Amber Reign Smith, Outlaws Posse), per l’uomo che gestisce i suoi affari - ovvero il suo ruffiano - Roy (Julian Horton, Tough Love: Atlanta). Roy lavora con Jules (Charles Malik Whitfield, Fresh) che è di fatto il protettore di Kimmie. Costretta a lavorare per lui per non tornare in carcere, la ragazza sogna di diventare come la sua eroina, l’imprenditrice Mallory (Crystle Stewart, For Better or Worse). Ma non sa che Mallory nasconde una natura spietata e crudele, fin troppo simile a quella di Roy… A cui è molto vicina.
Parola d’ordine: cheap
Tyler Perry ha fatto un disastro, come accennavamo prima. Non c’è un altro modo per definire questa serie, neanche volendo essere gentili. La prostituta dal cuore d’oro che sogna di diventare una donna d’affari si contrappone al volto dell’impero della bellezza - in realtà una donna senza cuore - che cura una linea di prodotti per capelli, quando indossa chiaramente una parrucca. Come il 90% delle attrici della serie. Con tanto di quei baby hair fintissimi su cui esistono migliaia di tutorial online.
Già questo dovrebbe far capire la profondità della ricerca fatta da Perry che, evidentemente, ha scelto di impiegare il proprio tempo e il proprio denaro per regalarci queste perle di cliché, banalità e sciocchezze.
Perché proprio i cliché? Perché non c’è niente, qui dentro, che non lo sia. Dal linguaggio volgare, continuamente offensivo nei confronti di donne che, di fatto, non si riscattano mai, fino agli eccessi dell’apparenza: parrucca, ciglia finte tanto lunghe da oscurarle il viso, trucco pesantissimo e aspirazione a una vita migliore finiscono per intrecciarsi in un triangolo amoroso senza senso, con le prevedibili drammatiche conseguenze.
Tutto, in Beauty in Black, è di basso livello nonostante la qualità delle riprese, i soldi ci sono ma andrebbero impiegati meglio. Dai dialoghi alle cosiddette “svolte” narrative, dalla totale assenza di approfondimento psicologico, risolto al massimo in un paio di flashback, al totale disprezzo nei confronti del sesso femminile, che non viene usato per descrivere la drammaticità del mondo in cui Kimmie è costretta a vivere, bensì per replicare quell’ambiente un po’ da rapper fra soldi e catene d’oro. Un mondo che finge di muoversi in un ambiente difficile quando vive di apparenza e privilegi.
Banalizzare la violenza: come essere offensivi
Il tema della violenza sessuale, e della violenza contro le donne in generale, viene trattato in modo sostanzialmente offensivo: buttato lì, senza conseguenze, tanto per “caratterizzare” i cattivi e le vittime della situazione. In un’epoca di battaglie per il diritto delle donne di non essere ammazzate per un “no”, ecco che Perry arriva a riportarci in piena atmosfera anni ’80, ma coi cellulari.
Perfino il delicato tema della chirurgia estetica diventa volgare, trattato in modo fastidiosamente superficiale, come tutto il resto. Quante probabilità ci sono che una coppia investa, senza accorgersene, la stessa persona nello stesso punto? Nessuna. È già questo dovrebbe raccontarvi la credibilità di un prodotto probabilmente pensato per aumentare gli abbonati afroamericani di Netflix, ma talmente deludente da non piacere neanche a loro.
Le donne non si riscattano mai, non davvero, dicevamo. Non solo: il maschilismo imperante in questa serie è così sottile da mostrarci l’unica donna di successo come il frutto di un matrimonio mirato: il marito di Mallory è ricco di famiglia, solo per questo lei è riuscita a fare carriera e a costruirsi un’immagine pubblica. Non certo per meriti suoi. Facile fare gli imprenditori coi soldi di famiglia del coniuge.
Fra esibizione gratuita di nudo e sesso e descrizione di donne al limite della psicopatia-quando la sociopatia è ampiamente già accertata-ci ritroviamo catapultati in un mondo Così volgare, approssimativo e offensivo che sicuramente costerà a Tyler Perry una larga fetta di quella comunità cristiana che nei primi anni della sua carriera, seguendolo durante i suoi play teatrali messi in scena nelle chiese sconsacrate, l’aveva sostenuto. L’unica spiegazione del successo di streaming di Black Beauty è proprio nella volgarità, nell’esibizione gratuita dei corpi e in quella tragedia che diventa involontariamente una commedia in cui Rain, la coinquilina di Kimmy, rischia la vita per rifarsi il sedere. Cos’altro potrebbe esserci, più cheap di così? Difficile immaginarlo.
Addio, diritti civili?
La cosa più grave in Beauty in Black, insieme al ritratto delle donne, è la riduzione a cliché anche di una questione importante come la violenza della polizia statunitense sui cittadini afroamericani.
Il primo - e unico, se non ricordo male, ma confesso che i ricordi sono un po’ confusi - attore bianco che compare lo fa per interpretare il poliziotto brutto e cattivo che si mostra inflessibile solo perché il guidatore dell’auto che ferma è nero.
Una scena e via. Abbiamo ridotto a cliché pure i ruoli: il super-cattivo della serie diventa un tenero agnellino di fronte al poliziotto bianco. Non era il caso di approfondire l’idea? Magari mostrando come perfino un uomo ricco e potente come Roy sia terrorizzato da un agente per via dei tragici fatti di cronaca che hanno portato alla nascita del movimento Black Lives Matters? Possibile che a Perry non sia neanche passato per l’anticamera del cervello di cogliere l’occasione per raccontare un dramma reale?
Macché. Niente da fare: si resta in superficie. Su tutta la linea.