Noi, loro e il serial killer: Brennero racconta il confine italiano dell’odio a suon di omicidi

Brennero raccoglie il testimone della nuova serialità RAI, attenta al racconto di territori lontani dalla consuetudine fiction italiana, attirando il pubblico con la promessa di una caccia al serial killer

di Elisa Giudici

Non c’è niente come una caccia in piena regola a un serial killer tornato all'improvviso in attività dopo anni di silenzio per invogliare il pubblico a imbarcarsi nella visione di una serie televisiva sul fare dell'autunno, l'inizio della stagione alta della programmazione TV. Brennero lo sa e perciò si apre con un omicidio efferato nel post partita, con tanto di primo piano della mano guantata del killer che punta l’arma contro la sua vittima, freddandola in mezzo alla strada. In un atmosfera da noir non vediamo il volto dell'assassino , ma sentiamo il boato, lo sparo, scoprendo il modus operandi a sfondo religioso: un ex voto lasciato sul petto del cadavere.

Il post partita però non è di calcio, bensì di hockey su ghiaccio. In Brennero infatti non siamo, al solito, nella capitale italiana o in una grande città, ma in un territorio lontano dal centro della serialità nazionale, di confine, geograficamente e narrativamente parlando. L’ultima volta che qualcuno aveva tentato di raccontare l'altoatesino su piccolo schermo - ci aveva provato Netflix con Curon nel 2020 - ne era uscita una delle serie più disastrose degli ultimi vent’anni. Brennero invece convince, anche se magari non avvince o seduce del tutto con i primi suoi due episodi.

Il serial killer di confine

Lo fa trasportandoci in una Bolzano dall’atmosfera sottile, rarefatta, che rigetta la visione paradisiaca che la commissione turismo del territorio ha così efficacemente creato negli ultimi decenni. Brennero ha imparato (e bene) la lezione di serie RAI di successo come Rocco Schiavone e Imma Tattaranni. Produzioni girate in loco con un'attenzione certosina agli scenari, che raccontano le città "lontane" di Aosta e Matera rimanendo sempre fuor di stereotipo, indugiando nel loro “lato oscuro”, raccontandole dal punto di vista di chi ci vive o di chi si ritrova e non vorrebbe star lì.

Brennero tenta di fare un passo oltre: la sua storia infatti è profondamente legata all’italianizzazione forzosa e tortuosa di un territorio linguisticamente e culturalmente fortemente legato alla tradizione austroungarica. A causa degli strascichi delle guerre mondiali, due comunità lo abitano, lo dividono, ma rimangono separate anche nel presente. Noi e loro, come acqua e olio. Due comunità che coabitano ma non si lasciano andare, guardinghe nel migliore dei casi.

È un terreno fertile per far germogliare un serial killer, uno che ha già ucciso in passato, sfuggendo alla polizia. Uno che prende di mira uomini che parlano tedesco, il cui modus operandi allude a una vendetta della popolazione locale italiana. La serie fa riferimento a un (vero) attentato terroristico dalle conseguenze drammatiche, in cui vennero presi di mira proprio gli italiani, gli altri, gli stranieri. Stavolta gli altri siamo noi, in una questura dove nonostante tutto si preferisce il tedesco all’italiano.

Sono passati anni dall’ultima volta che il mostro ha colpito, portandosi via la gamba e l’amata del poliziotto italiano che più di ogni altro è andato vicino a catturarlo. Sembra sparito senza lasciare traccia. Invece all'improvviso il killer torna a colpire. In questura il caso finisce nelle mani di Eva (Elena Radonicich), figlia dell’ex responsabile delle indagini, che la mette in guardia da Paolo (Matteo Martari), il poliziotto che si lasciò sfuggire il killer. Compassata, distaccata ma incapace di scrollarsi di dosso l’etichetta di “raccomandata”, Eva finisce per chiamare l’intemperante Paolo al suo fianco. La sua conoscenza enciclopedica del caso lo rende la spalla ideale per un’investigazione tortuosa e complessa, le acque rese torbide dal sospetto che il ritorno del mostro mai catturato possa non essere tale: se un altro lo stesse impersonando? Perché?

Brennero potrebbe crescere molto dopo un avvio solido

Brennero è scritta e diretta con grande conscenziosità, usando la lunga scia di omicidi per attirare il pubblico in quella che vorrebbe essere una mezza lezione di storia, un tastare il polso di un territorio ancor oggi diviso tra multiculturalità e rigetto, raccontando un passato di cui il Paese è spesso inconsapevole. Tuttavia questa è la parte più debole dell’intreccio, almeno in avvio. È molto più convincente e solida la trama investigativa, accorta nel non scoprire troppo presto le sue carte, lasciando lo spettatore senza indizi sull'identità dell'assassino. La dinamica tra Eva e Paolo - perfette incarnazioni caratteriali delle rispettive "nazionali" - è un po’ didascalica in avvio, ma promette bene per il futuro. Martari in particolare si dimostra padrone del ruolo e molto cresciuto rispetto a qualche impasse dei tempi de L’alligatore. Radonicich invece deve ancora prendere le misure, non sembra completamente a suo agio.

Lo stesso si può dire per il comparto tecnico della serie, con una regia curata e una fotografia puntuale, che guardano più alle produzioni di genere nordeuropee che a quelle d’oltreoceano. C’è la voglia di costruire un’atmosfera, su tutto, ma il risultato finale fatica a essere organico, funziona a scatti. Non siamo subito immersi in questa realtà montana aspra, insidiosa, come avveniva per esempio in Rocco Schiavone. Si sente il tentativo di costruzione dietro: solo il tempo dirà se sarà riuscito.

Questa recensione è stata scritta dopo la visione della prima serata di Brennero, ovvero dei primi due episodi e non della serie nella sua interezza.