Curfew: la recensione della serie di Paramount+ che demonizza gli uomini

Una serie che fa pensare, ma delude anche

di Chiara Poli

Non è facile lasciarmi interdetta. Ma Curfew, disponibile su Paramount+ con i 6 episodi della prima stagione, ci è riuscita benissimo. Sono stata incapace di prendere una vera decisione sul suo valore fino alla fine. Perché è talmente piena di contraddizioni da impedirti di smettere di pensarci. Lo capirete leggendo la trama (senza spoiler, come la recensione).

La trama di Curfew


In una società in cui, per proteggere le donne dalla violenza maschile, è stato imposto agli uomini un coprifuoco dalle 19:00 alle 7:00, monitorandoli attraverso dispositivi elettronici (chiamati “tag”), il ritrovamento del cadavere di Helen Jones (Alexandra Burke, Pretty Red Dress), un’insegnante rispettata, scuote profondamente la comunità. La detective Pamela Green (Sarah Parish, Blackpool, Stay Close), segnata dal dolore un grave lutto personale, sospetta subito che un uomo sia coinvolto nel delitto.

Affiancata dal nuovo collega Eddie Wilson (Mitchell Robertson, Harvest), Pamela si scontra con le resistenze della società e delle istituzioni. Se il coprifuoco ha apparentemente ridotto la violenza, esistono ancora zone d'ombra che lasciano spazio ai crimini più efferati. Mentre le indagini avanzano, emergono segreti inquietanti che mettono in discussione la reale efficacia delle misure adottate, aprendo interrogativi sulla giustizia e sulla libertà individuale mentre altre figure chiave della comunità si intrecciano alla vicenda. Sarah (Mandip Gill, Doctor Who), madre della giovane Cass (Imogen Sandhu, Casualty), fa parte delle tagger, ossia coloro che applicano i dispositivi elettronici di monitoraggio agli uomini… Ma com’è comprensibile, non tutti lo accettano di buon grado.

Una società piena di contraddizioni


Serie britannica basata sul romanzo After Dark di Jayne Cowie, Curfew fa riflettere parecchio. E per la sua stessa natura, imprecisa (almeno nella serie, non ho letto il romanzo, potrebbe essere un problema di adattamento), probabilmente farà anche discutere.

Perché nel mondo di Curfew gli uomini non possono uscire dopo il tramonto - diciamo così - per garantire la sicurezza delle donne. Però non si accenna a un solo crimine diurno (il sistema ha raggiunto tutti e sempre?), ma soprattutto non si differenzia dal mondo contemporaneo: le sex workers continuano a esistere. Chi si “vende” online per soldi, pur senza contatto fisico, non per questo non sta sfruttando quegli stessi uomini “pericolosi per i loro istinti” che demonizza. Capite bene che c’è da perderci la testa, sull’insensatezza e sulle contraddizioni dell’ambiente narrativo.

Ci muoviamo in un terreno incerto, non ben definito, non adeguatamente curato nei dettagli.

C’è anche un evidente richiamo alla questione già ampiamente esplorata dai film della saga sulla “notte del giudizio”, ovvero la manipolazione politica dei dati e dei fatti per ottenere i risultati politici desiderati. Per non parlare delle ingiustizie sociali.

Apparentemente, Curfew si propone come un’esplorazione dei concetti di giustizia e sicurezza, interrogandosi sulle implicazioni di misure drastiche per affrontare la violenza di genere. In realtà, l’unica parte che funziona davvero è quella delle indagini, con il classico whodunit in versione “sono tutti sospettati” (perché ad avere un movente sono davvero in tanti) e una risoluzione che francamente è un po’ banalotta e “comoda”.

Le case madri e la Gilead al contrario


Gil uomini sembrano spariti. Si accenna solo a una serie di dimissioni in massa dopo l’approvazione della legge da parte dei poliziotti uomini, ma il resto sfugge alla comprensione. Sembra di essere di fronte a una Gilead (The Handmaid’s Tale) al contrario in cui le donne, definendosi moralmente superiori agli uomini a prescindere (ma la soluzione del caso in qualche modo lo smentisce) non usano la violenza contro il “nemico”, bensì la coercizione.

La detective Green appena giunta sulla scena del crimine sentenzia:

A questo livello di rabbia ci può arrivare soltanto un uomo.

Evidenziando la rabbia che pervade l’intera società. Ed è qui che entrano in gioco le case madri, struttura “protette” in cui gli uomini non possono entrare e le donne vivono in sicurezza. Si presume.

Janet (Anita Dobson, Doctor Who, Smokescreen), responsabile di una di queste strutture, difende la sicurezza che offrono, mentre altre donne si interrogano sulla natura di un mondo in cui gli uomini vengono trattati come potenziali minacce a prescindere dal loro comportamento individuale. E anche dalla loro età, visto che il tag viene applicato ai bambini dai 10 anni in su.

La demonizzazione degli uomini porta a un odio sociale da entrambe le parti, alla nascita del movimento ribelle “Alpha” ma soprattutto all’evidente mancata risoluzione del problema, che riguarda entrambi i sessi.

La donne di Curfew


A chi pensa che si tratti di una serie “femminista”, dico subito che ottiene l’effetto contrario: fa riflettere sul concetto stesso e, per quanto mi riguarda, ho sempre pensato che il femminismo fosse la semplice aspirazione alla parità (di diritti, di doveri, di stipendio, di carriera e via dicendo).

Fatto sta che i personaggi femminili di Curfew sono insopportabili. Donne ipocrite, bugiarde, arrabbiate, rancorose. Donne piene di pregiudizi. Ma anche se così non fossero le sue protagoniste, Curfew farebbe comunque voglia di prendere le parti degli uomini.

Impossibile non schierarsi a loro favore: interrogarsi su quanto sia giusto limitare la libertà di una categoria di persone per proteggerne un’altra non può che dimostrare la stupidità del coprifuoco.

A cominciare dalla primissima sequenza, in cui tre ragazzine ubriache provocano gli uomini che le guardano dalla finestra.

La detective Green incarna il punto di vista più rigido per via della sua esperienza personale, e forse è l’unico fra tutti i personaggi femminili ad avere una giustificazione, almeno psicologica.

Ma l'idea che ogni uomo sia un potenziale pericolo diventa un punto di rottura nelle relazioni personali e nella struttura stessa della società. Il concetto di tagging, ovvero il monitoraggio degli uomini attraverso dispositivi elettronici, porta a un’evidente contraddizione. Nel tentativo di eliminare la violenza, si instaura un regime oppressivo e discriminatorio.

L’aspetto delirante di chi si “vende” online e poi parla di “molestie” e di “persecuzioni” (che fra l’altro non esistono: si tratta di un piano con uno scopo preciso) porta all’unico risultato possibile. In una società che demonizza gli uomini per principio, i veri demoni risultano essere le donne. Come anticipato, qui non troverete spoiler ma posso dire che la “responsabilità” femminile nell’innesto di una catena di eventi è evidente.

Interessante la figura dei consulenti di convivenza, uomini specializzati nel valutare l’idoneità di un uomo a condividere la casa con una donna senza rappresentare un pericolo per lei. Purtroppo, tutta la questione viene solo accennata ai fini della trama.

Insomma: Curfew fa acqua un po’ da tutte le parti. Ma ha almeno il merito di stimolare un dibattito.

Lasciandoci con un finale aperto alla possibilità di una seconda stagione che, se gli autori non dovessero cambiare, amerei molto potermi perdere…