Don’t Come Home - la recensione della miniserie di Netflix

Una storia ad alta tensione, con un ottimo finale

di Chiara Poli

Urge rivedere la classificazione dei prodotti: la miniserie thailandese di Netflix intitolata Don’t Come Home viene presentata come un horror. Non lo è. Non è nemmeno una miniserie di fantascienza, è più un fantasy con una punta di thriller soprannaturale.

Netflix ha scelto di non doppiarla, distribuendola in lingua originale con i sottotitoli. E la scelta è decisamente vincente.

Il podcast di Don't Come Home

 

La trama di Don’t Come Home


Bangkok. In una notte buia e tempestosa, in seguito a eventi che terrorizzano la piccola Min, Varee (Woranuch BhiromBhakdi) prende la figlioletta e, senza neanche un bagaglio, sale in auto e parte per un lungo viaggio. Dice a Min che andranno nella sua casa, la casa in cui Varee è cresciuta, a centinaia di chilometri da Bangkok. Ma una volta arrivate, Min inizierà a essere terrorizzata da quella casa e anche Varee inizierà a vedere strane cose. Finché, pochi giorni dopo il loro arrivo, Min scompare…

Una storia al femminile


Don’t Come Home ha per protagoniste tante donne: Varee, la piccola Min, la poliziotta incinta Fah (Pitchapa Phanthumchinda) - che si occupa delle indagini sulla scomparsa di Min, apparentemente persa nel bosco - e la madre di Varee, la ex proprietaria di casa Panida (Cindy Sirinya Bishop), nei flashback relativi ai primi anni 90. Fra presente e passato, il filo conduttore sono i ricordi, ma soprattutto i traumi.

A segnare le nostre vite, ci dicono gli autori Woottidanai Intarakaset (che cura anche la regia) e Aummaraporn Phandintong, sono le esperienze.

Ma a segnarle in maniera irrimediabile e a determinarne il corso sono i traumi: le esperienze negative, drammatiche, addirittura tragiche.

Il legame fra il presente e il passato diventa tangibile, benché poco chiaro. Non ha fondamenti scientifici, ed è per questo che la miniserie thailandese si avvicina molto più a un fantasy che è un’opera di fantascienza o a un horror.

Grande attenzione per l’atmosfera


La fotografia è molto suggestiva, l’ambientazione della vecchia casa in stile occidentale risalente al 1932 che fa da ambientazione principale alla vicenda è ricca di fascino. Le svolte narrative funzionano, restituendoci l’idea di una saga familiare per come si è svolta e per come si sarebbe potuta svolgere. Al centro di Don’t Come Home, infatti, ci sono gli “e se?”. Cosa sarebbe successo, nelle vite di tutta questa famiglia, se un evento apparentemente banale e non necessario si fosse evitato? Ce lo chiediamo per tutto il tempo, mentre il cast restituisce ottime interpretazioni, che rendono credibile una storia fondata su una richiesta di una buona dose di sospensione dell’incredulità.

La volontà di provare a imitare lo stile di Mike Flanagan è chiara, sebbene la componente horror tipica dei lavori dell’autore di Hill House, Midnight Mass e The Midnight ClubHill qui sia assente. A dispetto dell'evidente omaggio di una scena a Poltergeist.

C’è però quell’aspetto romantico-idealista, nostalgico e commovente tipico delle opere di Flanagan. Certo: siamo molto lontani da un risultato accostabile a quelli dei titoli di Netflix appena citati, ma il tentativo è apprezzabile.

Le produzioni orientali dimostrano di non essere esclusivo appannaggio della Corea del Sud, offrendo prodotti interessanti che mantengono alta la tensione per tutta la narrazione, fino alla rivelazione finale che spiega il titolo in un momento estremamente significativo dal punto di vista emozionale.

Consigliata a chi è pronto a non sapere cosa aspettarsi, e a credere a qualsiasi cosa.