Dostoevskij è la serie più vicina a True Detective che vedremo mai in Italia: la recensione da Berlino
Dostoevskij è la serie più vicina a True Detective che verrà mai prodotta in Italia: la recensione del poliziesco dei fratelli D'Innocenzo
Dostoevskij è la serie più vicina a True Detective che verrà mai prodotta in Italia, probabilmente. Un po’ perché solo Sky sembra volersi prendere la briga e il rischio di produrre qualcosa di così acritico e onesto nel suo guardare al degrado dei margini e della periferia mettendoci il budget necessario per tenere in piedi un confronto con i prodotti statunitensi made in HBO. Un po’ perché tra tutti i registi di punta del nostro panorama cinematografico, i fratelli D’Innocenzo sono tra i pochissimi in grado di “trovare l’Alabama nella periferia laziale”, come ha commentato un dirigente di Sky durante la presentazione alla stampa della miniserie a Berlino.
Dentro Dostoevskij si respira un’atmosfera molto precisa, palpabile, materica, ancora prima di venire avvinti dalla storia. Il dettaglio affascinante rispetto al True Detective originale è che i posti che racconta sono in larga parte non luoghi, realtà scovate nella campagna laziale ma che non si rifanno a un luogo geograficamente caratterizzato. Ci troviamo da qualche parte in una brutta periferia italiana degradata, tra le case di quanti vivono in casolari diroccati, casette solitarie, le ville degli zingari che vendono droga, le foto di figli e nipoti sviluppate in grande formato e appese ai muri, i piatti delle docce sporchi, la farina nel fornaio che cattura le ultime impronte di una vittima.
Lettere dall’assassino
Dostoevskij infatti è il nome in codice dell’omicidia seriale a cui Enzo Vitiello (Filippo Timi) dà la caccia. Nel giro di sei mesi ha ucciso decine di vittime. L’uomo colpisce a caso, annientando le resistenze delle vittime scelte in apparenza senza alcun criterio, uccidendo a mani nude o con armi da fuoco. La presenza di alcune lettere autografe dell’assassino sul luogo del delitto gli è vasa il suo soprannome. Nei testi farneticanti, scritti in stampatello su fogli di carta di fortuna, l’omicida riproduce lo stile di scrittura del celebre scrittore russo, ne ricopia la poetica mentre descrive ciò che ha visto e provato uccidendo la vittima del momento. Da qui: Dostoevskij.
Sulle tracce di Dostoevskij c’è un poliziotto cinico, disilluso, abrasivo, che vive l’inverno e l’inferno della sua vita.Enzo Vitiello incarna in sé tanti tratti e alcuni stereotipi del poliziotto abbruttito dal mestiere che fa. Trasandato, depresso, con istinti suicidi, è il genere di militare che mantiene pessimi rapporti con le altre forze di polizia, che non esista a picchiare selvaggiamente un pedofilo che ha già scontato la sua pena in carcere, che tiene una condotta poco ortodossa dentro e fuori dal lavoro. La serie si apre con il suo tentativo di suicidio, interrotto da una telefonata che annuncia il primo omicidio di una lunga serie dell’assassino seriale che cerca di catturare. Da un punto di vista perverso ma veritiero, a tenerlo in vita è l’attesa di un passo falso di un serial killer imprendibile.
Con l’ingresso in squadra di un giovane collega ambizioso e pronto a fargli le scarpe, Enzo si ritrova a fianco un osservatore acuto quanto lui. Uno che potrebbe carpire il suo segreto. Sin dal primo omicidio il poliziotto infatti lascia brevi messaggi per l’assassino sulle scene del delitto, alimentando un dialogo sotterraneo che vorrebbe farlo uscire allo scoperto. L’investigazione alla caccia del killer è continuamente inframezzata dal racconto di Enzo come rovina di un uomo invecchiato, scavato dagli errori passati, che coltiva ancora la speranza di salvare Ambra (Carlotta Gamba). La giovane figlia tossica e ostile di Enzo da parte sua non esita a sottolineare come il suo essere un sbandata sia in buona parte dovuto all’assenza del padre.
I D’Innocenzo tornano a convincere, osando cambiare
Nei panni di Enzo, Filippo Timi riesce a essere intenso e dolente. Riesce a tenere la serie in piedi la serie anche quando i D’Innocenzo indulgono un po’ troppo in un certo tipo di dialoghi quasi manieristici tra poliziotto e sospettato, tra padre e figlia. Timi ci mette tutto sé stesso, senza filtri, risulta poco riconoscibile, ma anche per questo molto efficace.
Dopo il passo falso di America Latina i D’Innocenzo tornano con un progetto originale davvero molto a fuoco, convincente. Dal primo episodio si sente forte la loro voce autoriale. C’è qualche indulgere in scene atmosferiche che è lontano dai ritmi seriali odierni e più vicino al cinema d’autore, ma Dostoevskij rimane una miniserie sorprendentemente centrata. La scrittura funziona, creando con pochi schizzi di sangue e molte fotografie delle scene del crimine il ritratto pulp di uno Zodiac italiano fittizio, che cattura da subito la curiosità dello spettatore.
La dimensione visiva della serie è forse l’aspetto più d’impatto. Fotografata da Matteo Cocco, montata dal sempre incisivo Walter Fasano, Dostoevskij segna un cambio di squadra e di consuetudini per i due sceneggiatori e registi.Paga in particolare la scelta di girare in pellicola, lasciando per giunta sporcature e segni di danneggiamento della celluloide nel prodotto finale. Il risultato è appunto atmosferico sì, a grana grossa, che ben s’accompagna al talento speciale dei due fratelli nel creare storie in cui i luoghi ameni e degradati esprimono una personalità forte quanto i protagonisti.
Dopo la delusione di America Latina, i D’Innocenzo ritrovano sé stessi immergendosi nel genere noir e creando una miniserie lontana per ritmi e costruzione dalla struttura seriale del momento. Sospeso tra film e serie, Dostoevskij sguazza nei capisaldi del noir e delle detective storie, affidandosi a un Filippo Timi che riesce a dare corpo, amarezza e realismo al ritratto archetipo di un poliziotto e un padre falliti, cinici, ma ancora intenti a lottare. Sky si conferma una realtà in grado di regalare serie che nel panorama italiano mancano spesso, per genere, autorialità e ambizione.