Eric: la serie di Netflix con uno straordinario Benedict Cumberbatch

Scopriamo insieme la nuova miniserie di Netflix

di Chiara Poli
Dal 30 maggio su Netflix Sto arrivando!iva Eric, miniserie in 6 episodi firmata da Abi Morgan (già sceneggiatrice di The Iron Lady, Shame e Suffragette) e interpretata da un Benedict Cumberbatch (Sherlock, The Imitation Game) più in forma che mai. Anche in questo ruolo drammatico, difficile e sfaccettato, l'attore inglese ci incanta. Diventando il centro di un universo in cui tutto viene filtrato dal suo punto di vista.

La trama di Eric


New York 1986. Edgar, un bambino di nove anni, scompare senza lasciare traccia gettando i genitori nel panico. Il padre, Vincent (Benedict Cumberbatch) è il creatore di un programma per bambini di enorme successo in cui i protagonisti sono burattini manovrati da Vincent e i suoi colleghi. La madre di Edgar, Cassie (Gaby Hoffman) ha continue discussioni con il marito, che è un uomo a dir poco problematico. Le ricerche di Edgar sono condotte dal detective Ledroit (McKinley Belcher III), che a sua volta vive una situazione personale molto difficile.

Un dramma intricato, che si perde un po’ per strada


In un mondo fatto di segreti, con una città che si nasconde sottoterra, lontana dalla luce e dagli sguardi della superficie, un bambino affida alla propria immaginazione tutte le difficoltà del suo rapporto con il padre.
Un padre creativo, un artista geniale ma, come spesso accade ai geni, anche un uomo profondamente autodistruttivo. Incapace di vivere con se stesso, Vincent non può vivere con gli altri finché non affronta la propria immagine riflessa. Quella vera.
Se avete visto la serie Snowfall, sapete già tutto. A metà degli anni 80, la diffusione del crack negli Stati Uniti stava esplodendo. Sotto la città, un esercito di senzatetto e di zombie tossicodipendenti si muove nel buio. Sopra la città, negli ambienti rispettabili, la droga più diffusa invece è l’alcol.
 
Vincent viene da una famiglia in vista in città, ha vissuto nel lusso, in un ambiente in cui l’apparenza è tutto. Un bicchiere di whisky o un calice di vino non saranno mai visti come un problema, in quell’ambiente. Ma Vincent si spinge ben oltre, alimentando la propria creatività, ma anche tutte le conseguenze spiacevoli e incontrollabili del suo disturbo.
Vincent non è il classico malato di mente, perché nella sua famiglia certe parole non si usavano.
Certamente, però, ha dei seri problemi che si trascina fin dall’infanzia e che l’atteggiamento dei genitori non ha risolto, né indirizzato verso la giusta strada.
 
Vincent, la sua mente, il suo modo di guardare il mondo e di vivere insieme insieme agli altri, sono la nostra guida nel mondo narrativo di Eric. Di conseguenza, ci troviamo spesso spiazzati e sballottati da un’atmosfera all’altra.
Cosa che funziona, ma solo fino a un certo punto.

Errori strategici nella narrazione


I primi due episodi ti incollano allo schermo. Vuoi entrare nel mondo di Vincent e di Edgar, vuoi scoprire-perché fin dalla prima immagine sei a conoscenza del dramma-che cosa sia successo al piccolo Edgar. Poi, però, dal terzo le cose iniziano ad accumularsi e la tensione a calare. Dopodiché arriva un grosso, macroscopico errore strategico, che azzera del tutto la suspense e di conseguenza anche l’interesse dello spettatore. Almeno per un attimo. Viene a mancare la curiosità, ovvero l’elemento che ti teneva incollato allo schermo.
 
Certo: Benedict Cumberbatch è un mostro di bravura. Come sempre. Non è all’altezza l’attrice che interpreta sua moglie, Gaby Hoffman (Transparent), anche perché ha qualcosa che sembra fuori posto: nonostante anagraficamente abbia sei anni meno di Cumberbatch, sembra decisamente più vecchia di lui. Troppo vecchia.
Dan Fogler (Animali fantastici e dove trovarli) è sempre impeccabile, a prescindere dal ruolo che fa. E il detective Ledroit è un personaggio che nasconde un grande, grande carisma.

Il braccio violento della legge


Per evitare ogni genere di spoiler, non posso entrare nei dettagli. Ma posso certamente ricordarvi questo: siamo a New York negli anni ‘80. Quando la polizia conosce un solo metodo per trattare chiunque non risponda, nell’aspetto, ai canoni del cittadino rispettabile: la violenza. Una violenza indicibile, ingiustificabile, che spezza il cuore.
Così come spezzano il cuore tutte le altre grandi tragedie della metà degli anni ‘80, dall’AIDS alle vite distrutte dalla droga, dal malaffare come stile di condotta, anche politica, fino alla discriminazione più becera. La violenza, però, viene associata a un contraltare. Un elemento fantastico, surreale, quasi da favola.
 
In una storia tragicamente drammatica sí è voluto inserire una parte di narrazione in puro stile film di Natale alla vogliamoci tutti bene, e stona. Parecchio. Non perché non si capisca cosa vuole rappresentare, bensì perché banalizza il tutto. E toglie verosimiglianza.
 
Invalida l’efficacia delle riflessioni su ciò che di marcio resta sepolto, mentre qualcosa - solo qualcosa - emerge. Ed è questo il vero punto di forza della miniserie, inspiegabilmente banalizzata da scelte incomprensibili: il sommerso. Il non detto. Gli atteggiamenti che hanno effetti su chi ci circonda senza che nemmeno ce ne rendiamo conto.
Mentre la follia diventa un concetto ben diverso da quello di malattia mentale: la follia è la base del mondo corrotto, avido e spietato in cui viviamo.