L’ombra di Caravaggio, recensione: il Caravaggio rock di Scamarcio e Placido lascia l’amaro in bocca
Tante ombre e pochissima luce ben direzionata: il film che racconta la tormentata vita e arte di Michelangelo Merisi naufraga nell’incapacità attuale del cinema italiano di essere davvero contemporaneo.
Dopo qualche spiraglio di luce arrivato dalla Mostra del Cinema di Venezia, il cinema italiano torna a dimostrare una cronica incapacità di fare cinema sul presente e nel presente. Si consoli comunque Michele Placido, regista di L’ombra di Caravaggio: non può certo essere accusato di “boomerismo”, dato che poche ore prima anche una produzione giovane e smaliziata Netflix intitolata Rapiniamo il Duce raccoglieva le medesime stroncature e perplessità.
Perché il cinema italiano sembra così spesso fuori dal mondo, lontano da come i film oggi, nel bene e nel male, parlano al pubblico? Le cause sistemiche e autoriali forse le conosciamo già, ma è sconfortante vedere come proprio laddove Michele Placido regista tenti di svecchiarsi, di alzare il ritmo del montaggio e rendere la sua regia più incalzante, il suo film biografico su Caravaggio incappi nei momenti di maggior imbarazzo.
L’ombra di Caravaggio: biografia di un’artista popolare
Il Caravaggio di Placido è un pittore rock, ma sotto sotto è in realtà un’artista pop. In superficie ci viene raccontato l’uomo tormentato e scapigliato che ben conosciamo, che consuma amanti (donne e ragazzini), eccede nel vino e nelle risse, si macchia di un omicidio e frequenta gli angoli più corrotti e degradati della Roma papale. L’epitome della rock star d’altri tempi. Il Caravaggio che questo film va a inquadrare però non sembra tanto essere la figura storica, quanto la percezione popolare (pop) appunto che è andata solidificandosi negli ultimi cento anni. Da artista quasi dimenticato a ribelle d’arte per antonomasia, iconico e scontato come Van Gogh: questo è il Caravaggio che finisce per fotografare questo film biografico. Il ragionamento dietro a un film costato 13 milioni di euro e che unisce i nomi e le finanze dei più potenti entourage cinematografici italo-francesi è in apparenza solido: così come si macinano film su Van Gogh contando sull’amore del pubblico, perché non investire su Caravaggio, raccontandolo così come il pubblico lo vuole? Un uomo verace ma vero, iper-contemporaneo nel suo essere un po’ un personaggio del dipinto del Quarto Stato un po’ concorrente dei reality che dice sempre quello che pensa, anche quando è scomodo.
Di fatto L’ombra di Caravaggio funziona alla grande proprio in questo: rende il genio e la maestria di Merisi istantaneamente evidenti e al contempo disinnesca i lati del suo carattere e della sua persona più controversi, leggendoli sempre in chiave contemporanea. A un certo punto del film si parla del quadro Amor Vincit Omnia, che ritrae un lascivo putto a gambe aperte, il sesso in vista. Si parla di sodomia con un certo orrore da parte della Santa Inquisizione ma è raccapriccio per l’età del soggetto ritratto (perché a Caravaggio “non piacciono gli uomini, bensì i ragazzini”), non proprio per l’atto in sé. Insomma, è un film in costume che di seicentesco ha solo la facciata, i costumi, ma il sentito è attualissimo, rimodernato, semplificato con quella facciata graffiante e superficiale di una certa serialità biografica che si consuma veloce e dimentica in fretta.
L’ombra di Caravaggio: un detective scava nel privato di Merisi
La storia del Caravaggio viene semplificata grazie alla guida dell’Ombra (Louis Garrel): un investigatore che agisce nell’ombra, interpellato dal Papa in persona per scavare nella vita di Merisi e decidere se concedergli la grazia per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni di cui si è macchiato. Bloccato a Napoli, Michelangelo Merisi (Riccardo Scamarcio) sa di avere una condanna a morte sulla propria persona. Una sentenza che stabilisce che chiunque lo voglia, possa decapitarlo, facendo giustizia per l’omicidio del Ranuccio.
L’ombra dunque scava nel passato di Merisi, interroga e occasionalmente tortura amici e nemici, ne contempla le opere, ne incontra i modelli (prostitute e mendicanti): il tutto per tentare di dare una risposta al Papa e al pubblico in sala. Michelangelo merita di essere graziato per i suoi peccati umani? Il suo genio può condonare la sua condotta controversa? La risposta del film è evidente fin dalle prime battute, univoca, forte: Merisi è geniale, ha commesso degli sbagli ma è fondamentalmente un uomo amico del popolo, timorato di Dio, il cui crimine principale è di essere troppo in anticipo sui tempi, troppo onesto, troppo diretto nel dire quello che pensa.
Niente Martone, niente Garrone, ma neanche niente Guadagnino: Placido è lontano da certe ricostruzioni del cinema italiano puntuali e polverose, ma guarda più a prodotti di largo consumo che al panorama internazionale autoriale con cui certo cinema italiano dialoga. Il problema è che nell’aderire a questo gusto, Placido dimostra tutta la sua inadeguatezza. Verrebbe da dire che è un po’ fuori dal suo elemento e, ogni volta che tenta di apportare un guizzo, finisce per fare un pasticcio. Prendiamo per esempio la scena di water boarding seicentesco con cui il personaggio dell’Ombra tenta di estorcere alcune informazioni su Merisi. Improvvisamente ecco che il suo personaggio appare alle spalle del torturato, anche se pochi secondi prima stava a molti metri di distanza. Voleva essere un colpo di mano, un jump scare, un cosa?
Scamarcio soccombe a Garrel
L’amalgama tra interpreti italiani e francesi - quello che dovrebbe essere il punto forte della pellicola - funziona pochissimo. Scamarcio è eccessivamente sopra le righe e soffre il confronto con Garrel, che però insiste nel parlare in italiano, perdendo in naturalezza e depotenziando il suo personaggio. Molto più lungimirante, Isabelle Huppert si affida alla sua doppiatrice storica per la versione italiana, ma il suo personaggio cade nella trappola che il film si costruisce per auto-sabotarsi. Di fatto L’ombra di Caravaggio è un lungo racconto in cui tutti vedono e comprendono il genio del Merisi e finiscono per volerci andare a letto: uomini, donne, cardinali, inquisitori, prostitute e lacchè. Il conflitto di cui tanto si parla è inesistente, perché il film postula da subito la sua verità: il genio di Caravaggio, allora e oggi, è incontestabile, palese, auto-evidente. Una tesi che cancella con un colpo di mano la possibilità di raccontare Caravaggio nel suo tempo e con il suo sentito, per non parlare di quanto si scontri con secoli in cui la popolarità del pittore non era quella odierna o non era legata al suo genio artistico. Una figura come quella del critico d’arte Roberto Longhi, cruciale per la riscoperta novecentesca dell’arte caravaggesca, non ha senso d’esistere nel mondo ritratto da Placido. A questo punto perché non fare un film alla Baz Luhrmann, volutamente storicamente impreciso ma graffiante e rock? Da Romeo+Giulietta al recentissimo Elvis, il regista australiano ha tradito a dovere le sue storie per raccontarne l’essenza nel presente. Semplice: perché qui a dirigere tutto c’è Michele Placido, che è tante cose ma non un regista alla Luhrmann.
Sottigliezze, esagerazioni, dirà qualcuno, ma già nel 1941 (quando uscì il film Caravaggio, il pittore maledetto) Merisi era inquadrato più come uomo tormentato che come artista. Di cose nuove da dire L’ombra di Caravaggio, a ben vedere, ne ha davvero pochissime ed è forse questo il problema.
Voto
Redazione
L’ombra di Caravaggio, recensione: il Caravaggio rock di Scamarcio e Placido lascia l’amaro in bocca
Se l’ombra di Caravaggio voleva essere un tentativo di raccontare il complesso rapporto tra il vissuto di un’artista e la sua opera, è un completo fallimento. Se voleva essere la solita storia di un Caravaggio un po’ populista, che sta con il popolino e si batte contro il sistema (papale), è comunque un film che dice male ciò che già ci aspettiamo in questo senso. Se voleva essere un’occasione per far brillare Scamarcio, mettergli di fianco un sempre ispirato Garrel, anche se alle prese con una lingua che padroneggia senza troppa sicurezza, è stato un errore. L’ombra di Caravaggio insomma è una grande produzione che, pur con ambizioni popolari, fatica anche a regalare un intrattenimento ben fatto.