La concierge Pokémon è l’antidoto perfetto per la tristezza post festiva: la recensione della serie Netflix
Adorabile e scaldacuore: la serie animata in stop-motion La concierge Pokémon di Netflix ha un solo difetto: è troppo breve.
Quanto sarebbe migliore il mondo, quanto sarebbe superfluo questo lavoro se dietro ogni serie e film in uscita si percepisse l’amore e la cura che i realizzatori di La concierge Pokémon hanno infuso in questo progetto. Arrivata su Netflix il 28 dicembre, questa brevissima serie animata in stop-motion ha un solo difetto: la sua brevità, appunto. La si guarda in un baleno e si rimane un po’ delusi quando bisogna salutarla alla fine del quarto episodio.
La brevità degli episodi (una ventina di minuti l’uno) e il loro scarso numero sono dovuti, come sappiamo, alle difficoltà realizzative della tecnica in stop motion, una delle tecniche d’animazione più esigenti in termini di lavoro, tempistiche e costi. In questo caso è stato lo Dwarf Animation Studio a realizzare, fotogramma per fotogramma, le animazioni, seguendo la direzione registica di Ogawa Iku.
Lo stop motion materico di La concierge Pokémon
Alle consuete difficoltà di realizzazione pratica della serie concorre anche la scelta di utilizzare una vasta gamma di materiali per realizzare i pupazzi che vengono mossi millimetricamente, fotogramma dopo fotogramma, per dare l’impressione del movimento. Oltre alle consuete resine e plastiline e ai tessuti utilizzati per la realizzazione degli abiti dei personaggi, c’è un vasto impiego di materiali dalla resa simile al feltro per realizzare i Pokémon e il loro manto, variandolo in base a quanto il personaggio abbia o meno un aspetto peloso. Per esempio Pikachu e Psyduck sembrano fatti in feltro, mentre Furret sembra avere una vera e propria pelliccia.
Sembrano considerazioni marginali, ma l’estrema matericità dei pupazzi e il livello di dettaglio raggiunto dai set in cui si muovono concorrono a dare alla serie quell’atmosfera da casa di bambole, da artigianalità miniaturista che amplifica ancor di più il coefficiente già alto di intimità, comodità e benessere che questa serie trasmette. La ricchezza visiva della serie - che arriva a incorporare i Pokemon nelle trame dei tessuti delle tende, nel design degli elettrodomestici e nei più piccoli oggetti d’arredo - la rende poi naturalmente predisposta a essere vista più e più volte. La prima volta per godersi la trama, la seconda e la terza per tornare a fare visita e acquisire familiarità con gli spazi del resort e dell’isola in cui è ambientata.
Aiutare i Pokémon, aiutare sé stessi
La concierge Pokémon è una serie che nutre il nostro bisogno di benessere, positività, riscoperta di ritmi lenti e abitudini gentili. Lo fa però proponendoci delle riflessioni molto semplici, attraverso una soluzione impossibile e non solo perché nel nostro mondo i Pokémon non esistono. La serie infatti si apre con Haru, la giovane donna protagonsita, che dopo una sequenza di eventi più o meno tristi della sua vita decide di recarsi sull’isola dove si trova una splendida struttura alberghiera: nel resort lavorano e soggiornano sia umani, sia Pokémon. Non sarà un’ospite, ma lavorerà come impiegata della struttura ricettiva.
Paralizzata dall’ansia sociale e dal bisogno di dimostrare di essere efficiente e capace (o come si direbbe oggi, di “performare”) Haru prende pian piano le misure con una realtà di lavoro distesa e rilassata, con una vita dai ritmi meno stringenti. La signora Watanabe, a capo della struttura, è la capa ideale: si concentra sui punti forti dei dipendenti, organizza la propria struttura lasciando che l’indole di ciascuno lo porti a dare il meglio, fornisce vitto e alloggio gratuiti. L’unica richiesta è darsi da fare e, possibilmente, legarsi a un Pokémon per dedicarsi al benessere degli umani e dei mostriciattoli sull’isola.
Haru finisce per fare amicizia con uno Psyduck un po’ imbranato, venendo affidata alla cura degli ospiti Pokémon. Nel corso delle tre puntate la seguiamo mentre prende pian piano confidenza con il lavoro, lasciandosi guidare dai colleghi e dai Pokémon e imparando a tirare il fiato.
La vera lezione La concierge Pokémon è la sua etica lavorativa
Divisa tra salute mentale e voglia di tenerezza, La concierge Pokémon ci ricorda che “le persone spesso non dicono esplicitamente quello che desiderano”. È esattamente quanto accade ****con i Pokémon, che non riuscendo a parlare la lingua umana vanno sostenuti e capiti per regalare loro l’esperienza migliore possibile sull’isola. Il parallelo narrativo tra umani e Pokémon è al centro della narrazione: così come alcuni Pokémon evolvono all’improvviso, così Haru lentamente cambia, lasciandosi dietro l’insoddisfazione per ciò che non funzionava nella sua vita e scoprendone un’altra in cui, senza imposizioni e ritmi frenetici, impegnarsi nel lavoro e dare il meglio di sé riesce quasi naturale.
Tutto, dai dialoghi alla splendida sigla di chiusura - "Have a Good Time Here" di Mariya Takeuchi - ci fa provare benessere e solleva lo spirito. Certo, applicando un briciolo di cinismo e cattiveria si può evidenziare come le dolci ramanzine che la serie ci fa (a partire dalla nostra dipendenza da Internet e smartphone) non abbiano sbocchi pratici, se non il piacere di una fantasia escapista ancor più irrealizzabile del solito.
La cura estrema con cui la serie è realizzata però per una volta spinge per una volta a essere propositivi. La lezione da portarsi a casa, oltre a un’oretta di visione che mette davvero di buonumore, oltre all’inevitabile considerazione che ogni tanto tutti abbiamo bisogno di un po’ di gentilezza (anche “costruita” come l’illusione ottica creata dagli scatti alla base dello stop-motion) è l’etica di lavoro dietro questo progetto. Così come Haru, La concierge Pokémon è un progetto caratterizzato da passione, entusiasmo e cura: questi sì tre antidoti perfetti e davvero efficaci per dare al pubblico in cerca d’intrattenimento ciò che cerca, lontano da una certa sciatteria di prodotti pensati per essere consumati velocemente e messi da parte.