La gabbia: recensione della serie francese sulle MMA
Alla scoperta di pregi e difetti de La gabbia su Netflix
La gabbia è il ring dello sport da combattimento noto come MMA (Mixed Martial Arts, arti marziali miste). Un ring chiuso con delle reti contro le quali i combattenti vengono sbattuti durante i match.
Quando ho visto su Netflix il documentario McGregor Forever, sulla vita è la carriera del campione di MMA Conor McGregor, non avevo idea di cosa facessero gli atleti per arrivare “giusti” al momento della pesata. Qualcosa che sembra devastante e che solo persone veramente, veramente motivate possono sopportare. Il protagonista de La gabbia, la serie francese di Netfilx in 5 episodi firmata dall’attore e sceneggiatore Franck Gastambide (Medellin), qui interprete nei panni di Boss, sembrava promettere bene.
La trama de La gabbia
Taylor Kita (Melvin Boomer, Reign Supreme) si allena in una palestra di MMA gestita da Boss e sogna di diventare un professionista e di entrare nella UFC (il più importante circuito mondiale di MMA). La sua occasione arriva quando mette inaspettatamente K.O. l’imbattuto Ibrahim Ibara (Bosh, Validé), noto come “il distruttore”, una sorta di campione-gangster e bullo. Da quel momento, la vita di Taylor - con una situazione famigliare disastrosa - cambia. Ma la strada è in salita.
Il riscatto attraverso lo sport: una storia non nuova
Il classico underdog su cui nessuno avrebbe mai scommesso, con un padre inesistente e una madre da dimenticare, senza nessun mezzo se non il coraggio e l’ambizione, si riscatta grazie allo sport. In una ripresa di Rocky con una spruzzata di Million Dollar Baby e una strizzata d’occhi a Fight Club, La gabbia non ha nulla di originale ma scorre via senza intoppi.
Almeno fino al quarto episodio, quando succede qualcosa di davvero inverosimile. Non inserisco spoiler, ma mettiamola così: ci si convince che per far passare la paura si debba affrontare la morte. Letteralmente. Da questo momento, La gabbia crolla. L’ennesima - non una, non due, più di 3 “occasioni della vita” sono troppe per chiunque, un retroscena inefficacemente strappalacrime e tanta retorica. Passerebbe un po’ la voglia di vedere il quinto e ultimo episodio, anche perché dura un’ora e 10, ma già che sei in ballo finisci di ballare, e la storia torna in carreggiata.
Peccato che alla fine tutto sia ridotto a cliché, a cominciare dalla motivazione per cui Taylor, dilettante sconosciuto, arriva a sfidare un campione di MMA aggressivo e bullo in una sorta di riscatto sociale, economico, morale e via dicendo. Una sorta di - citando il personaggio di Julia Roberts in Erin Brockovich - “Davide e come si chiama”.
Davide e Golia
Perseveranza non è ostinazione.
Le parole di Boss, l’allenatore dei professionisti della palestra di Taylor, sono chiarissime: per fare sport di combattimento a livello professionistico ci vuole tanto, tantissimo lavoro.
A Taylor non fa paura il lavoro. Ma proprio quando decide di rinunciare all’iscrizione in palestra, mentre sta per andarsene, arriva il professionista bullo, arrogante e probabilmente anche psicopatico. Con più incoscienza che coraggio, il nostro novellino si offre di fargli da sparring partner. A quel punto decolla il sogno. Il vero Georges St-Pierre, campione canadese di MMA, compare nei panni di se stesso (vedremo anche Jon Jones nello stesso ruolo) per allenare la giovane promessa dello sport francese. Non bastano, però, i suggestivi paesaggi canadesi e la gabbia all’aperto per allenarsi in uno sport che si svolge rigorosamente al chiuso. Non basta perché la caduta di stile che arriva al quarto episodio cambia le carte in tavola. Come una deviazione dalla trama insensata.
Taylor sogna la UFC, ma non è Rocky Balboa. La parte dell’allenamento in Canada è piuttosto avvincente, come puntualmente accade con i film e le serie a tema sportivo, ma sostituire la scalinata di Philadelphia con il Trocadero non fa de La gabbia il nuovo Rocky. Nemmeno per sbaglio. Siamo di fronte a una versione contemporanea - fondamentale il ruolo dei social network - delle tante storie sul pugilato (e simili) che hanno affollato il cinema. Tutte meglio riuscite di questa.