La recensione di Good American Family e la storia vera di Natalia Grace

Una scioccante storia vera, ancora senza soluzione

di Chiara Poli

Good American Family in arrivo dal 9 aprile su Disney+ prende spunto da uno dei casi più sconcertanti e mediaticamente esplosivi degli ultimi anni: la storia vera di Natalia Grace, un vero e proprio enigma legale (e umano) che ha messo in discussione tutto ciò che pensiamo di sapere su identità, famiglia e fiducia.

Chi è Natalia Grace?


Nata in Ucraina nel 2003 con una rara forma di nanismo chiamata displasia spondiloepifisaria congenita, Natalia viene adottata nel 2010 da Kristine e Michael Barnett, una coppia americana dell’Indiana già nota per il loro impegno nei confronti dei bambini.

Secondo i documenti ufficiali, Natalia ha 6 anni al momento dell’adozione. Ma ben presto la quotidianità con lei inizia a far sorgere nei Barnett dubbi sempre più insistenti: secondo loro, la bambina mostrerebbe comportamenti troppo maturi per la sua età, come un vocabolario avanzato, la capacità di reggersi in piedi senza difficoltà nonostante la sua condizione medica, e persino episodi inquietanti – che nella serie vengono reinterpretati con una certa ambiguità – come presunti tentativi di fare del male ad altri membri della famiglia.

Nel 2012, convinti che Natalia non sia affatto una bambina ma un’adulta che si finge minore, i Barnett si rivolgono a un giudice e ottengono un’ordinanza che cambia legalmente la sua data di nascita: dal 2003 al 1989. Sì, esatto: ben 14 anni di differenza!

Da quel momento, secondo la legge Natalia non è più una bambina da proteggere, bensì un’adulta, presumibilmente responsabile delle sue azioni. E così, i Barnett la sistemano da sola in un appartamento a Lafayette, in Indiana, e si trasferiscono con i loro altri figli in Canada, lasciandola senza supporto né supervisione. Da qui nasce il vero cortocircuito che la serie - pur romanzando e alterando alcuni elementi, come accade sempre a fini drammatici - riesce a trasmettere con efficacia crescente episodio dopo episodio: Natalia era una bambina vulnerabile, vittima di abusi e abbandono, o una truffatrice pericolosa, capace di manipolare e ingannare chi l’aveva accolta come una figlia?

Domande senza risposta


A colpire davvero è il tempismo: a tutt’oggi, la vicenda di Natalia Grace non è ancora stata chiarita del tutto. Le indagini successive hanno restituito un quadro confuso e paradossale, aggravato da perizie mediche contraddittorie e testimonianze spesso discordanti.

Nel 2019 Michael Barnett viene assolto dalle accuse di negligenza e abbandono. Kristine Barnett deve affrontare lo stesso iter giudiziario, ma il processo a suo carico viene sospeso. Intanto, l’opinione pubblica si divide. Alcuni ritengono che i Barnett siano stati vittime di una frode clamorosa, altri vedono in Natalia l’ennesimo caso di minore disabile ignorata e traumatizzata da un sistema che ha preferito tutelare i genitori piuttosto che la figlia adottiva.

Ed è a questo punto della storia che arriva Good American Family, chiaramente allo scopo di soddisfare la curiosità del pubblico americano (e non solo) nei confronti di Natalia Grace e della sua famiglia adottiva.

Il punto di vista della serie è chiaro: l’unica certezza è l’assenza di certezze…

Good American Family non convince del tutto

Il problema però non è tanto quello della mancanza di una verità oggettiva da restituire agli spettatori, quanto quello di una messa in scena che sembra davvero solo voler sfruttare la (triste) fama del caso.

 

La prima parte degli 8 episodi punta chiaramente a dar ragione ai coniugi Barnett. Poi s'inverte la rotta, cambiando prospettiva per passare a quella di Natalia Grace.

Ellen Pompeo, qui alla sua prima prova significativa dopo due decenni trascorsi a indossare il camice di Meredith Grey in Grey’s Anatomy, fatica a liberarsi dalle abitudini ricorrenti e dalla compostezza del suo personaggio storico. Il suo ritratto di Kristine Barnett risulta un po’ freddo, impostato, incapace di restituire appieno la complessità emotiva di una madre che si muove continuamente sul confine fra amore e ossessione, fra tutela e paranoia.

Di tutt’altro spessore è l’interpretazione di Mark Duplass (che ricorderete nei panni di Chip in The Morning Show) stavolta nei panni di Michael: misurato, tormentato, capace di oscillare tra colpevolezza e autodifesa senza mai perdere credibilità. La sua performance tiene insieme i tanti registri emotivi della serie, che alterna momenti di dramma familiare a suggestioni quasi horror, soprattutto nelle scene che rievocano - o meglio immaginano - gli episodi più inquietanti della vita domestica con Natalia.

Pur non priva di forzature narrative e semplificazioni necessarie all’adattamento nel formato televisivo, Good American Family si distingue per la capacità di tenere alta la tensione e di non cedere alla tentazione del giudizio facile. Probabilmente perché un giudizio non ci può essere, visto che il caso ancora non è arrivato a una verità totale almeno giudiziaria…

Alla fine, più che offrire risposte, la serie fa ciò che la vera storia di Natalia Grace continua a fare: lasciare lo spettatore inquieto, perplesso e profondamente incerto su cosa sia davvero una “buona famiglia americana”.