La legge di Lidia Poët, recensione: l'eroina Netflix è una Imma Tataranni che non ce l'ha fatta

di Elisa Giudici

Vorrei avere la faccia tosta necessaria a dire che ci avevo creduto che La legge di Lidia Poët potesse essere quello che prometteva di essere: la prima grande serie italiana prodotta da Netflix. Invece mi è bastato l’avvio del primo episodio per subodorare l’andazzo preso da un titolo sicuramente più ambizioso di alcune disastrose produzioni seriali italiane della grande N rossa (ricordare Curon e Luna nera?).

Alla prova dei fatti nemmeno ci prova ad evitare tutti i difetti che rendono le produzioni Netflix nostrane assai meno esaltanti di quelle in lingua inglese o di esperimenti riuscitissimi e internazionalizzati come il tedesco Dark o lo spagnolo La casa di carta.

La trama di La legge di Lidia Poët

La legge di Lidia Poët s’ispira alla storia giudiziaria e umana di Lidia, prima donna a entrare nell'Ordine degli Avvocati dopo una battaglia legale durata anni. Figura di riferimento per il progresso del genere femminile in Italia, vissuta nella Torino di fine Ottocento, la vera Lidia Poët è poco più di un’incipit per una versione che di storico sembra avere pochissimo.

La serie si apre con Lidia che ha un orgasmo grazie alle attenzioni del suo amante scopamico Andrea (Dario Alta). Suona eccitante ma non lo è quasi per nulla. Un po’ perché Matilda De Angelis, che interpreta la protagonista, è tra le peggior simulatrici d’orgasmo viste su schermo. Un po’ perché la sua Lidia è tanto scurrile, sfrontata, ribelle e bastevole a sé stessa che fa rapidamente il giro e diventa la versione italiana di un’Enola Holmes. Tanto giovane e bella, tanto moderna e bad ass da risultare da subito inverosimile.

La legge di Lidia Poët scomoda un importante e poco conosciuto personaggio storico italiano, ma sembra farlo più che altro come scusa per girare un legal drama in costume ambientato a Torino. Qui Lidia tenterà di difendere i clienti del fratello avvocato, dimostrandosi una provetta investigatrice e una spina nel fianco per lo stesso sistema giudiziario che le ha arbitrariamente revocato la possibilità di esercitare la propria professione.

Lidia è un’avvocatessa la cui iscrizione all’albo di Torino viene revocata sulla base del fatto che è donna. Nel corso della prima stagione difenderà una serie di imputati accusati di omicidio, dimostrandosi un’eccellente investigatrice e un manifesto un po’ gratuito e didascalico di una donna forte.

Oltre al lavoro, Lidia dovrà pensare al suo futuro di donna non ancora sposata con almeno due pretendenti al seguito: il giornalista Jacopo (Eduardo Scarpetta) e l’indolente commerciale Andrea, che inizia Lidia al mondo dell’oppio, gode del suo amore per i super alcolici e sembra più incline a divertirsi con lei che  tentare di trasformarla in una moglie e madre.

Perché La legge di Lidia Poët non funziona

Se prendi un volto riconoscibile e fotogenico come quello della De Angelis per il ruolo di Lidia Poët e condisci il suo intercalare di parolacce come stronzo e cazzo, facendola camminare sola soletta, non maritata, nel buio dei vicoletti torinesi è evidente come il racconto della figura storica non sia esattamente in cima alla lista di priorità.

Lo è invece attirare lo spettatore con un volto noto e la promessa di un legal drama in costume capitanato da un personaggio femminile che non si fa mettere i piedi in testa. Essendo io una persona noiosa, la mia prima obiezione sarebbe subito perché non partire da un personaggio completamente inventato, ma diamo per assodato che la Lidia originale dorme sonni tranquilli e questa versione condivide con lei giusto il nome e un paio di elementi biografici.

Cosa fa la versione Netflix? Le costruisce attorno sei casi investigativi dalla scrittura così povera da risultare peggio che prevedibili: piatti. Se quando Lidia indaga parla con un solo possibile sospetato oltre al suo cliente, chi sarà mai il vero assassino? Gli indizi vengono così malamente rigurgitati dalla sceneggiatura che appaiono da subito evidenti. Come legal drama dunque è bocciato su tutta la fila.

Anche sul fronte personaggi la scrittura si dimostra poverissima. Intorno a Lidia per gran parte delle sei puntate che costituiscono la prima stagione c’è un vuoto colmato appena da due love interest e un paio di figurette stereotipate. C’è il fratello bacchettone ma tutto sommato buono, c’è la moglie di lui Teresa (Sara Lazzaro, appena vista anche in Call My Agent Italia), c’è la figlia della coppia, alle prese con la sua prima cotta.

Lazzaro in particolare è sprecata. Quando nell’ultimo quarto d’ora la serie le da finalmente qualcosa da fare vediamo il potenziale di un personaggio trascuratissimo. De Angelis al contrario come Lidia Poet è traballante quanto il suo tentativo di accento sabaudo. Non c’è scioltezza né naturalezza, non c’è complessità emotiva a fronte di una sceneggiatura semplicistica. Eduardo Scarpetta e Dario Aita a confronto di una De Angelis mai davvero in palla giganteggiano.

E dire che dietro questa produzione c’è Grøenlandia, lo studio di produzione del regista di Il primo re Matteo Rovere, che ha diretto il primo episodio. Eppure la Torino ottocentesca è una cartolina fatta male al green screen e ancora una volta ci tocca una fotografia tanto pessima che le parti in notturna rimangono indefinite per l’incapacità dello spettatore di leggere con chiarezza cosa avviene su schermo.

Questa mediocrità di fondo non significa che La legge di Lidia Poët sia una serie inguardabile o che non troverà una sua popolarità o un successo anche internazionale. Purtroppo però a livello qualitativo rimane una serie così povera, così poco rifinita, da non poter essere che uno spreco di risorse.

Lidia contro Imma

Poi basta prendere il telecomando e andare su RaiPlay per trovare una Lidia Poët riuscita, targata Rai Fiction**: Imma Tataranni, sostituto procuratore**. Una donna che nella Matera degli anni ‘20 del nuovo secolo, affronta pregiudizi non dissimili da quelli raccontati dalla serie Netflix. Come a dire che le donne un piede nella porta ce l’hanno messo, ma entrare nel mondo del lavoro ancora oggi non è indolore.

A differenza di Lidia, Imma è una donna forte in modo non misurato, spesso in maniera sgradevole.

La scrittrice che l’ha inventata, Mariolina Venezia, l’ha immaginata abbigliata con cattivo gusto, burbera, sposata da tempo con lo stesso uomo e non giovanissima. A interpretarla c’è Valeria Scalera, un volto fino a poco tempo fa ignoto al pubblico televisivo, una donna matura e madre di un’adolescente credibile, il volto bello ma maturo, segnato dal tempo e dagli errori.

I casi su cui indaga Imma sono complessi il giusto, facili da seguire ma spesso spiazzanti e amari nella risoluzione, con tanto di vicenda processuale orizzontale che cresce per importanza e colpi di scena episodio dopo episodio.

Anche Imma è divisa tra due uomini: un appuntato che la ama appassionatamente e il marito che, a modo suo, la ama ancor di più. Non sono però interpreti bellocci con un personaggio appena abbozzato. Gli amanti di Imma, i familiari, i collaboratori al lavoro sono figure che hanno in sé il grottesco e il tragico, che esistono anche al di fuori del rapporto con Imma.

Imma Tataranni è solo una delle scommesse vinte da RAI, per non scomodare la Petra di Paola Cortellesi e altri titoli di grande innovazione e qualità su Sky.

Che Netflix esca sconfitta dal raffronto con un’emittente generalista e per giunta legata a un pubblico anziano e conservatore (come quello di Rai1) è emblematico del fatto che lo sforzo fatto con La legge di Lidia Poët è solo di facciata. Purtroppo l’ambizioso legal drama in costume è solo l’ennesima serie che attira il pubblico con uno o più volti noti e un incipit intrigante.

Concentra gli sforzi non sulla scrittura e sulla regia del prodotto finito, ma sull’attrarre gli spettatori il tempo necessario per convincerli che dato che tutti ne parlano e dato che il primo episodio si lascia guardare, tanto vale continuare.

Possibile che non si possa fare di meglio? Non dico per onore figure come Lidia Pöet, che meriterebbero ben altro, ma anche e solo per rispetto del tempo richiesto per la visione di una serie che alla fine lascia davvero poco oltre ai primi piani della De Angelis. Per questa produzione Netflix però s’impegna in altro: rendere massimamente visibile la serie il tempo necessario perché se ne parli abbastanza da stimolare la necessità non di vedere una bella serie ma di vedere il titolo del momento. Come altro definire i due spot dedicati visti passati ogni giorno, guarda caso, proprio su Rai1, durante Sanremo?