Masters of the Air, bellissima fuori, bella dentro: perché vedere la serie kolossal AppleTV+
Il budget da kolossal, l’approccio da un film a caccia di Oscar, la maestria delle migliori serie HBO: perché vedere una serie vecchio stile, con lo sguardo chiaro e il cuore puro, come Masters of the Air.
Quest’anno non vedrete una serie più bella di Masters of the Air. In senso letterale, dal punto di vista tecnico, è davvero difficile che qualcuno si avvicini ad esprimersi a questo livello e per ragioni scontate. Questa miniserie infatti, divisa in 9 episodi da 50 minuti l’uno, è costata 250 milioni di dollari. Siamo comunque sotto il costo di un grande blockbuster hollywoodiano, considerando che questo imponente quantitativo di soldi è spalmato di quasi 8 ore di visione.
Non è che manchino e mancheranno serie televisive con budget a tre cifre. Rimane un fatto che Apple riesce a rendere palpabile e visibile il valore del denaro che mette sul piatto, a fare fruttare fino all’ultimo dollaro in una resa che qui è stupefacente. Non solo la squadra tecnica messa insieme è strepitosa: stiamo parlando di una serie che ha come costumista una leggenda come Colleen Atwood, girata e fotografata nei primi quattro episodi dalla premiata ditta Cary Joji Fukunaga & Adam Arkapaw, ovvero i principali fautori di quel look che ha fatto impazzire tutti per la prima stagione di True Detective. La sobrietà iper realistica dei set di Chris Seagers, le grandiose sinfonie composte da Blake Neely: non c’è un singolo comparto in cui questo titolo non si esprima ai massimi livelli.
Forse il risultato più impressionante, capace di generare un pizzico d’inquietudine, è la perfetta fusione tra effetti visivi e girato dal vivo. A un certo punto è la logica più che l’occhio a suggerire che no, non stanno sparando munizioni grosse come pietre addosso a Austin Butler e Callum Turner mentre pilotano un velivolo da combattimento della Seconda guerra mondiale, anche se la resa visiva è tale che bisogna veramente socchiudere gli occhi e concentrarsi su lievissime sbavature per averne una conferma.
Cosa se ne fa una serie però di questa ambizione, di questi risultati se poi manca la storia, il cuore? Masters of the Air non è il titolo che conquista subito, non ha un pilota strepitoso che tiene incollati al divano. Niente giri della morte, niente acrobazie a mezz’aria. Solo dieci ragazzi giovanissimi, chiusi in un delicato guscio di metallo via via perforato dai colpi nemici, che schiacciano leve e pulsanti, srotolano manichette, tirano righe a matita su mappe e “peel their eyes” per scorgere in tempo, tra le nuvole, i nemici. La scelta che Masters of the Air fa è di natura quasi morale e non è una sorpresa, considerando che i produttori sono Tom Hanks e Steven Spielberg. La serie sceglie l’approccio filologico, quasi documentaristico. Come i suoi protagonisti, il trauma e l’emozione scavano dentro a poco a poco.
Chi ha la pazienza e il coraggio di tornare in volo con i ragazzi del 100th Bomb Group della U.S. Air Force verrà ripagato con un’esperienza memorabile.
Vero, morale, sincero: Masters of the Air è davvero “vecchio stile”
I natali e le ispirazioni di questo progetto affondano nella storia televisiva di HBO. Se la serie vi ha ricordato da subito hit storico-militaresche come The Pacific e Bands of Brothers non è un caso. I produttori sono gli stessi, il progetto nasce nella stessa emittente, poi viene ereditato da AppleTV+. Bastato sul bestseller di Donald L. Miller, portato su piccolo schermo dallo showrunner John Orloff, Masters of the Air racconta le imprese di un gruppo di giovanissimi piloti e soldati statunitensi che danno man forte agli inglesi sopra i cieli d’Europa, dal 1943 fino alla fine della Seconda guerra mondiale. L’obiettivo è quello d’indebolire la morsa nazista sul continente, di fiaccarla in vista di un’invasione di terra che prima o poi bisognerà tentare. Il contingente americano ha un approccio più rischioso e remunerativo di quello inglese. I britannici bombardano a tappeto nel cuore della notte. Gli statunitensi volano di giorno, puntano chirurgicamente a obiettivi cruciali, difficili da colpire al buio. Diventano però facili prede dell’aviazione nemica: quasi 80% del piloti impegnati in queste missioni morirà, verrà ferito o fatto prigioniero nel corso del conflitto. Nel quinto episodio viene festeggiato il primo pilota che, dopo un anno di sforzi, è riuscito a completare 25 missioni tornando sempre alla base.
Masters of the Air racconta le storie vere di un pugno di piloti, eroi senza lati oscuri di un’America oggi perduta. In come li racconta e nel perché lo fa è davvero una serie vecchio stile, che dimostra gli anni e la sensibilità generazionale di Hanks e Spielberg. Curiosamente, o forse no, ha un approccio da vecchia Hollywood anche nel scegliere il proprio cast: facce bellissime, da modelli, occhi tersi, volti cesellati. C’è persino un cane, Polpetta, che sembra un top model canino, tanto il pelo è folto e il muso espressivo. La scelta del cast ripaga tanto sul livello estetico quanto sul livello interpretativo. Austin Butler l’ha arruolato Tom Hanks sul set di Elvis, Barry Keoghan è un colpo di fortuna dopo la sua esplosione di popolarità per Saltbun, Callum Turner infila il primo ruolo di pregio della carriera, interpretando il cuore emotivo e il contraltare l’eroismo puro e quasi ascetico di Butler. Nel mezzo, un’infornata di volti giovani e giovanissimi, che ritroveremo più in là in altri progetti, così come fu per Dunkirk di Christopher Nolan.
Butler e Turner interpretato il maggiore Gale “Buck” Cleven e il parigrado John “Bucky” Egan, inseparabile coppia bromatica che scruta il cielo dalla pista d’atterraggio o tra le file di prigionieri in territorio nemico, nella speranza di rivedere e ritrovare l’altro. Le missioni, specie quelle che tentato di bombardare la città di Brema, sono spesso azioni suicide collettive. Sebbene la serie ragioni in termini militari, inquadrando le perdite in termini matematici e ingegneristici (velivoli, equipaggi perduti, costi umani contro obiettivi bombardati), lentamente si entra sotto pelle ai protagonisti. O almeno, a quelli che sopravvivono episodio dopo episodio.
In Masters of the Air c’è anche spazio per una cauta, contenuta analisi su cosa scavano queste missioni nelle menti di chi le affronta. È un giusto compromesso per raccontare sindromi post traumatiche in un’era che manca delle parole,della comprensione, della conoscenza medica e psichiatrica per raccontarsi questo risvolto. C’è una scena, intensa, dove un pilota in congedo ha un affaire con una sfollata polacca, i corpi nudi illuminati dalle bombe che cadono su Londra. Lui è quasi pietrificato dal senso di colpa, dalla neonata consapevolezza di cosa significhi subire le bombe, lei gli offre un bicchiere di gin e gli dice che forse il marito pilota disperso ha concimato le patate da cui è stato tratto quel liquore. Non vuole approfondire la sua conoscenza, dice, perché non vuole legarsi a potenziale altro concime. Il tutto così sottovoce, così compostamente da sembrare quasi sottotono, facendo rivivere una certa pudizia, un certo tenersi dentro tutto dell’epoca.
Ad alcuni Masters of the Air potrà sembrare distante, ad altri stucchevole nel suo eroismo non filtrato. C’è però un pubblico non solo tra i papà e gli appassionati/nerd d’aviazione per una serie che sull’altare della testimonianza e della Storia decide di non sacrificare la sua integrità, a costo di sembrare datata. Masters of the Air dimostra che un racconto fatto bene funziona, anche se è misurato su metriche di un’epoca precedente.
A ben guardare poi, questo è vero fino a un certo punto. Basta guardare bene, appunto. Per motivi storici i protagonisti sono per gran parte giovani maschi caucasici. Quando può però Masters of the Air non manca di raccontare il contributo delle donne che fecero la stessa scelta di questi uomini, ancor oggi meno rappresentate: le partigiane adolescenti che nascosero chi finì in territorio nemico, le volontarie che servirono alle basi come cuoche, segretarie, telefoniste. Ci sono poi i contingenti afroamericani che entrano in scena più tardi: Masters of the Air non solo racconta la loro prospettiva, ma chiama Dee Rees, ovvero una regista afroamericana, a farlo.