Perché The Bear è la serie del momento in Italia: ecco il primo, vero colpaccio Disney+ in Italia
The Bear è il primo colpaccio seriale di Disney+ in Italia al di fuori del territorio sicuro dei titoli Marvel e Star Wars. È la prima volta infatti che una serie ospitata ma non proprietà diretta della piattaforma di streaming fa parlare di sé tanto da generare un vero e proprio passaparola. The Bear ha saputo attirare utenti alla ricerca di un titolo slegato dal giga-franchise che costituiscono il cuore dell’esperienza di visione dell’abbonato medio nel catalogo.
Non ci volevano grandi capacità di divinazione per capire che The Bear è un’ottima serie, ma era tutt’altro che scontato che un titolo per molti versi sui generis come questo riuscisse ad attirare tanta attenzione anche in Italia. Soprattutto considerando quanto poco, di fatto, Disney stessa l’abbia spinto. Il successo di The Bear è quasi del tutto basato sul caro e vecchio passaparola, che ha spinto prima le persone e poi le testate giornalistiche di spettacoli a occuparsi del fenomeno.
Per certi versi The Bear appartiene a una serialità di cui di recente si parla poco, per altri fa praticamente eccezione da tutto il resto e ricade quasi nel sperimentale. A partire dai nomi e dall’emittente che c’è dietro. Scopriamo insieme cosa e chi si nasconde dietro al fenomeno The Bear e se veramente vale la pena di recuperare questo titolo.
Cos’è The Bear e di cosa parla
The Bear è una mosca bianca, a partire dall’emittente che ha creduto nel progetto: FX, broadcaster “vecchia scuola” statunitense lontana per dimensioni, attitudine e modelli produttivi dai nuovi giganti dello streaming e della serialità come Netflix, Prime e Disney.
Qui viene incubata una piccola serie in 8 episodi da meno di 30 minuti di durata l’uno. Non si tratta però di una comedy, genere che di solito ha puntate più brevi della media, bensì di un dramma che ora guarda al mondo del cinema, ora alla serialità verticale vecchia maniera. In The Bear c’è una trama che evolve d’episodio in episodio, ma è opportunamente occultata dietro un’apparenza verticale. In ogni puntata infatti si segue il frenetico lavorio nella cucina di una paninoteca di Chicago sempre sull’orlo del fallimento.
A rilevarla dopo la morte del precedente proprietario è il fratello di quest’ultimo, Carmen “Carmy” Berzatto (Jeremy Allen White). Per tentare di rimettere in pista il locale di modeste dimensioni e pretese Carmy ha lasciato un posto di primo piano nella cucina del ristorante stellato più quotato del mondo. La quotidianità sua e del suo staff è costellata di difficoltà economiche e pratiche: una cucina vecchia e mal organizzata, una squadra ostile al cambiamento e sbandata, continui imprevisti ed eventi che ogni giorno potrebbero decretare la fine del Chicago’s Original Beef. Questo è il nucleo non così innovativo di The Bear, che nonostante le premesse, più che uno show sulla cucina e sul cibo è il racconto ansiogeno, palpitante e a tratti spossante di quel che c’è dietro il piatto scintillante che la ristorazione ci presenta insieme al conto, almeno quella lontana dal mondo standardizzato delle grandi catene dei fast food.
The Bear: cosa c’è davvero nella testa di chi cucina
The Bear è uno show che cerca di raccontare cosa ci sia davvero nel quotidiano di chi lavora dietro i fornelli, che lo faccia per vocazione o necessità economiche. Il focus è quasi sempre lavorativo e umano, lontano dai toni comici o dal pietismo, ma comunque attento a immergere lo spettatore nel tour de force senza fine che costituisce la vita di Carmy e di chi gli sta a fianco in cucina o nella sua non esistente vita personale.
The Bear devolve una quantità di minutaggio ragguardevole ai sogni e alle ansie del suoi protagonisti, in montaggi frenetici che mostrano come il cibo e il lavoro s’insinuino tanto nelle loro giornate lavorative quanto nelle notti per lo più insonni. La prima stagione dà uno spaccato allarmante e familiare di come, guidati dalla vocazione della passione o dalla necessità di sopravvivere, il mondo del lavoro di oggi non lascia scampo, mai, a nessuno. Senza farne un dramma, ma senza fare finta di niente, The Bear mostra armadietti del bagno ricolmi di flaconi di medicine, lambisce il territorio delle dipendenze e degli attacchi di panico, tratteggia il malessere che permea il mondo del lavoro, che sia competitivo (talvolta abusante) ai massimi livelli dell’eccellenza o che galleggi economicamente tentando di non arrendersi a catene di fast food o ristoranti borghesi.
Non è un caso che The Bear sia ambientato a Chicago, la città ventosa che raccoglie molte delle aspirazioni borghesi e snob statunitensi ma che al contempo si fa vanto della di una forte integrità lavorativa. A Chicago era ambientato anche The Good Wife, procedurale che guardava dentro vizi, virtù e nevrosi dei suoi avvocati ricchissimi e appassionati, eppure sempre a un passo dall’esaurimento.
L’amore per il cibo e una quieta disperazione esistenziale figlia del disagio psicologico sono l’accoppiata di sapori bizzarra che The Bear decide di servirci, facendo centro. La scrittura di ottimo livello di Christopher Storer e JOanna Calo (Ramy, Bojack Horseman) spiega solo in parte la sensazione di unicità data dallo show, che somiglia davvero a poco altro visto di recente su schermo.
Il merito va a un lato tecnico più che curato, utilizzato per plasmare l’identità stessa dello show. A differenza di una certa sciatteria produttiva ormai dilagante anche nei prodotti a alto budget dei servizi streaming, The Bear ha dietro di sé un lavoro certosino. A partire dalla regia, The Bear è ottimamente diretto e fotografato, scegliendo un’identità forte e lontana da una patina seriale standard e anonima. L’approccio è tutto camera a spalla e movimento, il montaggio è assolutamente strepitoso nel dare un senso di realtà e presa diretta, sovrapponendo azioni e dialoghi, senza scadere nel simil documentaristico o nell’approccio da reality, senza tregua o pause. Monumentale poi il lavoro di stratificazione fatto nella creazione del sottobosco sonoro della serie, dove sui rumori della cucina si affastellano i suoni lontani e vicini della metropoli statunitense.
Nella cucina microcosmo del Chicago’s Original Beef si muove un cast in cui non c’è nemmeno una faccia davvero familiare, a parte qualche sparuta apparizione di Jon Bernthal nei panni dell’ex proprietario che ha cacciato Carmy nel caos poco organizzato in cui tenta di stare a galla, economicamente e psicologicamente. Il tutto capitanato da un Jeremy Allen White (Shameless) con la faccia da schiaffi e l’energia giusta per essere ora il geniale chef sotto pressione dai media, ora il capo stronzo che spinge i dipendenti al licenziamento ora un giovane uomo alle prese con un’eredità familiare che quasi lo schiaccia.