Ripley: su Netflix la miniserie piena di stile e fascino visivo

Un finale più incisivo e un grande fascino visivo nella miniserie su Netflix

di Chiara Poli

Nonostante la profonda differenza nello stile visivo e narrativo, i nomi non mentono: Ripley, Greenleaf, Marge, Dickie… Sono i personaggi di una storia che conosciamo già tutti, quella magistralmente raccontata da Anthony Minghella nel suo adattamento cinematografico del 1999 (che seguiva un primo adattamento del 1960, uscito da noi con il titolo Delitto in pieno sole e con Alain Delon nel ruolo di Tom Ripley) del romanzo del 1955 di Patricia Highsmith: Il talento di Mr. Ripley.

Un disturbante Matt Damon prendeva il ruolo che fu del fascinoso Delon per trasformarlo in qualcosa che lasciava un segno nella memoria collettiva, un disagio palpabile, tanto da risultare quasi intollerabile. E per questo perfettamente riuscito nel suo intento.

Ripley nasce negli USA per il network Showtime, ma Netflix è interessata alla distribuzione, così la miniserie arriva con i suoi 8 episodi sulla piattaforma di streaming dal 4 aprile. L’interesse di Netflix emerge chiaramente dal principio, di fronte a una serie di grande qualità e impatto visivo.

La trama di Ripley


Roma, 1961. Un uomo trascina un cadavere giù per le scale di un palazzo. New York, lo stesso uomo viene avvicinato da uno sconosciuto in un bar: un tale signor Greenleaf, di un cantiere navale, vuole parlare con lui. Vuole che vada in Italia a cercare suo figlio, amico dell’uomo che è stato convocato: Tom Ripley. Così Tom parte, alla volta di Atrani, per rintracciare Dickie Greenleaf e convincerlo a tornare a casa, in America. Ma Tom vuole vivere come vivono Dickie e la fidanzata Marge, vuole condividere tutto con Dickie, da cui sembra diventare ossessionato. Vuole diventare Dickie e, non potendolo fare, vuole stargli il più vicino possibile. Ma le cose non andranno come previsto…

Una fedele trasposizione del romanzo con un Tom Ripley inedito


Il Tom Ripley di Andrew Scott (l’indimenticabile nemico giurato di Sherlock, Moriarty, e il John Parry di Queste oscure materie) è molto diverso da quello di Matt Damon. Affabile, non sembra recitare quando interpreta la parte del bravo ragazzo rimasto orfano e laureato a Princeton. Benché sia un truffatore, esattamente come l’altro Tom, il suo aspetto più maturo lo rende visceralmente differente e in un certo senso più difficile da individuare come personaggio disturbato rispetto al film del 1999.

Mentre viaggia verso l’Italia, dai timbri sul suo passaporto scopriamo che è il 1961. E istantaneamente, ancora prima di riconoscere l’intera storia, capiamo di chi fosse il cadavere trascinato sulle scale.

Ci arriveremo, naturalmente, a quel momento. Non subito, però: gli 8 episodi di quasi un’ora ciascuno scelti per rendere questa nuova trasposizione più fedele al romanzo di partenza si arricchiscono di tanti momenti tirati per le lunghe, di personaggi (come Carlo di Napoli) che non comparivano nelle altre trasposizioni perché sostanzialmente inutili ai fini del racconto, e di lungaggini anche visive che invece accrescono il senso di disagio che anche la miniserie, come il film, vuole trasmettere.

La scena del primo omicidio compiuto da Tom dura a lungo. Troppo a lungo. Ma rende il senso d’isolamento di un personaggio che risulta essere molto più fortunato che intelligente.

Se il Dickie Greenleaf di Johnny Flynn (Emma, The Score), qui nella miniserie, ricalca in modo piuttosto evidente quello di Jude Law del 1999, per il terzo personaggio al centro della narrazione, Marge, è tutta un’altra storia.

Quando uscì il film di Minghella, Dakota Fanning aveva 5 anni. Noi l’abbiamo conosciuta bambina, in tanti ruoli per il piccolo e il grande schermo, e la ritroviamo oggi a interpretare Marge, ruolo storico che fu di Gwyneth Paltrow.

In tutto il romanzo (e il film) c’è un solo personaggio che intuisce subito, a “pelle”, la reale natura di Tom Ripley, e si stratta proprio di Marge. Una Marge che nella miniserie di Netflix è ancora più credibile di quella del film, grazie a quel fastidio e a quel disgusto malcelati che Dakota Fanning esprime decisamente meglio della Paltrow.

Quando il bianco e nero fa la differenza


Nella miniserie, poi, è tutto più sofisticato: l’uso del bianco e nero ci distrae dai meravigliosi colori dei paesaggi italiani che fanno da sfondo alla storia e ci fa concentrare sulla composizione dell’inquadratura, il gioco di luci e ombre, i costumi e gli accessori. Ma anche, soprattutto, sulla drammaticità di un racconto che il grande Steven Zaillian - sceneggiatore e regista degli 8 episodi - aveva già adottato in passato nel suo capolavoro assoluto: il copione di The Schindler’s List di Steven Spielberg.

La drammaticità espressa dal bianco e nero è innegabile: i volti non sono sempre chiari, avvolti nella penombra. I loro contorni risultano a tratti indefiniti e questo, nel caso di Tom Ripley, il personaggio-camaleonte per eccellenza, è estremamente funzionale. Poi ci sono il Caravaggio - anche in veste di personaggio in un flashback ambientato nel 1600 - nella chiesa romana e la luce necessaria per coglierne la maestosità.

Anche per quanto riguarda il focus, come dicevo qui spostato dai paesaggi e le opere d’arte all’essenza dei personaggi, il bianco e nero risulta fondamentale. In fondo, quella di Tom Ripley è una storia con molti aspetti noir. E il noir, si sa, da tradizione giocava sulla scala dei grigi anziché su quella dei colori.

Il romanzo restituisce un Tom Ripley freddo e calcolatore, privo di quella dimensione umana e fragile, sola e con un disperato bisogno e desiderio di appartenenza che gli era stata attribuita da Matt Damon.

L’essenza vera, intatta di Tom Ripley emerge magnificamente dall’interpretazione di Scott e dalla sceneggiatura di Zaillan, dandocene una versione molto aderente a quella del libro ma privandoci di tutta quella dimensione psicologica che aveva reso il Ripley di Minghella quasi ipnotico. Attenzione, però: questa mancanza è ampiamente compensata dalla bravura di Andrew Scott che, grazie a tutta la parte introduttiva, ci fa conoscere meglio Tom e il suo modo di guadagnarsi la vita come piccolo truffatore.

Nel film c’era il numero musicale di Fiorello junior, qui ascoltiamo Mina che canta Il cielo in una stanza. Basterebbe questo a sottolineare lo stile e l’eleganza della miniserie, in cui il personaggio di Freddie del compianto e grandissimo Philip Seymour Hoffman ha stavolta il volto di Eliot Sumner, la figlia di Sting e Trudie Styler, già nel cast della geniale serie The Gentlemen

La natura camaleontica di Ripley viene rappresentata metaforicamente dalle infinite scale che il personaggio deve fare nel film. Prima ad Atrani, poi a Roma - dove l’ascensore è rotto - Andrew Scott si arrampica faticosamente e ripetutamente per impervie scalinate, esattamente come Tom Ripley si arrampica sulla scala sociale che sembra essere il suo unico e vero obiettivo: la conquista di una vita agiata e l’ingresso nel jet-set della società.

Nel cast compaiono, tra gli altri, gli attori italiani Margherita Buy, Maurizio Lombardi, Massimo De Lorenzo e Pasquale Esposito. Ma la vera chicca è la presenza di John Malkovich in un ruolo minore: l’attore aveva infatti interpretato Tom Ripley ne Il gioco di Ripley, film del 2002 sequel della storia originaria.